Universalmente riconosciuto come il fotografo che ha fermato l’attimo su persone influenti e celebrità, da Federico Fellini a Tyra Banks. Ha ricostruito l’espressione estetica nella moda con i suoi servizi fotografici e campagne pubblicitarie per Prada, Gucci, Versace e tanti altri. Nel corso del tempo, poi, ha collaborato con svariate riviste, tra le più note nel campo della moda. Ha girato il mondo e lo ha vissuto, alternandosi tra Londra, Milano, New York e Parigi. Ha scritto il suo nome storia della fotografia e poi ci ha di nuovo illuminati con la consacrazione artistica attraverso il progetto SKULLS. Questo e molto altro è Antonio Guccione, che abbiamo deciso di raggiungere telefonicamente e di intervistare per voi.
Buona lettura!
È una domanda interessante, che mi invita a riflettere sulle mie radici, sul mio percorso artistico, sulle influenze che hanno plasmato il mio stile. Avevo diciannove anni quando, con la qualifica di fotografo, fui chiamato per il servizio militare obbligatorio. La persona che ha avuto un impatto determinante nel mio percorso artistico è stata mia madre che mi ha indirizzato alla fotografia.
I sognatori cambiano il mondo – Anonimo
Non sono consapevole di quello che faccio, le radici culturali si manifestano attraverso “segni”. Nel mio lavoro cerco sempre quel momento emozionale, non è una questione tecnica: saper vedere la bellezza che ci circonda è un qualcosa che parte dal tuo interno. La vita che respiriamo ci pone una domanda ogni giorno, ogni attimo diventa mistero, tant’è che non ho scelto di fare il fotografo, sono stato scelto dalla fotografia!
A tal proposito Giuliana Scimè in Antonio Guccione Fashion and Faces Skira Editore (giugno 2005, pag. 8/9) scrisse:
The Last Supper, un grande vassoio di gustose tagliatelle, dodici piatti e tre modelle. 1981, Porto Cervo, pioggia incessante per giorni interi. Impossibile realizzare all’aperto la campagna pubblicitaria per la linea “Spazio” di Gianni Versace. Guccione esasperato e annoiato, scende in cucina e ordina tagliatelle al pomodoro per dodici. L’idea prende forma. La fotografia non sarà mai pubblicata, all’epoca considerata troppo azzardata; è probabile che sia la prima ispirata dall’Ultima cena di Leonardo. Il ciclo di serigrafie di Andy Warhol è del 1986 e, comunque, è un’elaborazione del celebre affresco.
Nel 1983 la rivista “L’Officiel” invitò Angus McBean a realizzare un servizio di moda a Parigi. Ormai da dieci anni il grande ritrattista inglese aveva abbandonato la professione, non aveva mai ripreso fotografie di moda, si avviava a compiere il suo ottantesimo compleanno ed era cieco.
Una sfida impossibile che malgrado tutto, McBean raccolse: il suo ultimo lavoro è un capolavoro di grazia e fantasia, di riferimenti letterari, di ardita composizione. L’assistente preparava la scenografia, metteva in posa le modelle secondo le istruzioni del maestro e dietro la macchina fotografica c’era il giovane, e già affermato, Antonio Guccione per le riprese. Per vie misteriose dell’animo e della mente, l’esperienza con McBean, l’ultimo sublime esteta, è penetrata in Guccione che ha assorbito e rinnovato la ricerca dell’eleganza, e…il gusto per l’assurdo, per il gioco sottile della sorpresa.
Questa domanda va dritta al cuore dei valori e delle scelte di una persona, soprattutto di un artista. L’integrità artistica e la libertà creativa sono per me le fondamenta irrinunciabili della mia storia. Tempo fa, ad esempio, vengo contattato da un’agenzia pubblicitaria per fare il ritratto a Dustin Hoffman per la promozione di un prodotto. Mi viene inviato un bozzetto che illustra come devo ritrarre il grande attore, Il bozzetto non mi convince, lo faccio vedere a Dustin che guardandomi capisce il mio disappunto e, stracciando il bozzetto, dice: ‘Facciamo come vuoi tu’.
Quando la campagna pubblicitaria apparve su tutti i giornali ebbe un grandissimo successo, fu replicata per diversi anni e l’agenzia pubblicitaria non mi ha più contattato. Avrei rinunciato alla proposta di un giornale piuttosto che accettare da chi mi faceva aspettare. Il desiderio di progredire e la necessità di saper attendere il momento giusto. Ogni artista (e non solo) si trova spesso di fronte a queste scelte: accettare subito ciò che arriva o rischiare per qualcosa di potenzialmente migliore?
Alla fine, ogni decisione plasma il percorso. Magari quell’esperienza mi ha insegnato qualcosa di importante che oggi riconosco come parte del mio bagaglio.
La mostra negli Stati Uniti “Faces of New York” del 1992 mi ha fatto capire dove ero arrivato. Diecimila persone in fila per vedere i miei ritratti un metro per due stampati su tela emulsionata esposti alla galleria ‘The Time is Always Now’ di New York. Giornali, televisione, interviste, tutto accadeva rapidamente. Mi sentivo dire, “sei grande”. Ci sono voluti tre anni di lavoro ed ero arrivato alla fine del processo distrutto.
In quel momento la mia priorità era di inventarmi qualcosa di nuovo, divincolarmi dal successo era un modo per andare avanti, e per mantenermi attivo e produttivo, cosa faccio? cambio sede, mi sposto da un paese all’altro. Come si sa, qualsiasi attività artistica si basa sulla ripetitività. Fai una cosa, funzione, la ripeti e la ripeti per anni, sei gratificato, tutti ti vogliono, ti danno soldi, di danno tutto e a quel punto sei morto per sempre, seppellito dal tuo successo.
Alessandra Redaelli in Antonio Guccione From Jesus to Yves Saint Laurent “Vanitas” (settembre 2014, pag. 6):
In fondo, la svolta che in questi ultimi anni lo ha portato verso una fotografia diversa non è poi così drastica come sembra alla prima occhiata. I suoi teschi sono, ancora, ritratti. Che lui racconta con l’entusiasmo di un ragazzino e con quegli occhi mobilissimi scintillanti di orgoglio.
Il primo, un imponente Benito Mussolini, nasce quasi per caso. Guccione fotografa questo oggetto da un’angolazione ribassata, ne fa un monumento su un fondo dai colori caldi, vagamente aciduli. La somiglianza si coglie dopo. E lui, l’artista, con la sua consueta prontezza ad afferrare lo spunto e la sua voglia di giocare, ci prende gusto.
La serie nasce così. E la somiglianza di ogni soggetto al suo teschio-perché la somiglianza c’è, sul serio, al netto di tutto ciò che viene aggiunto – ora la ottiene affidando la realizzazione della materia prima (il teschio appunto) a un’azienda tedesca che si basa sul volto reale per intuire le fattezze del cranio. Il gioco è al tempo stesso pop e profondamente concettuale, ma ogni ritratto è unico, anche per procedimento, significati, simbolismi e associazioni.
Ecco Andy Warhol. Con l’immancabile parrucchino, certo, ma anche virato in un rosso sanguigno. Ci guarda dritto negli occhi e lo sguardo, potremmo giurarlo, è proprio il suo: scanzonato e sornione allo stesso tempo. Ecco Jackson Pollock, il suo teschio pare liquefarsi in un dripping di fluidi colori puri. Ecco un Leonardo da Vinci citazionista. La lunga barba fluente attaccata pelo per pelo.
Già, perché Guccione è un purista, postproduzione e Photoshop sono usati in maniera minima, omeopatica, verrebbe da dire. Quello che l’occhio vede nelle sue fotografie è stato messo lì dalle sue mani. Sculture vere e proprie, insomma, che poi l’artista distrugge perché quello che conta è la foto, la testimonianza. E poi del resto è proprio questo che le Vanitas ci insegnano, no? Che nulla resta.
In primis “la luce è verità“, perché la luce è l’essenza della fotografia, la chiave per rivelare il mondo. Studiarla, comprenderla e rispettarla è un comandamento imprescindibile. A seguire “l’autenticità sopra ogni cosa“, poiché la fotografia non mente, ma il fotografo può scegliere cosa raccontare. Essere onesti con la propria visione è sacro. “Il momento decisivo è sacro”, d’altronde, come insegnava Cartier-Bresson, c’è un istante perfetto per ogni scatto. Imparare a riconoscerlo è un atto di fede.
Bisogna ricordare, inoltre, che “ogni scatto è un’offerta al tempo”. Fotografare è fermare un istante, salvare un frammento di realtà dall’oblio. Ogni immagine è una piccola preghiera contro il tempo. “Lo sguardo è più importante della Tecnica”, mentre la macchina fotografica è solo un mezzo. È la visione del fotografo che da valore all’immagine.
Imperativo, poi, è “rispettare il soggetto come rispetteresti un Credo”. Che sia una persona, un paesaggio o un oggetto, ogni soggetto merita rispetto, perché attraverso di esso passa la narrazione del mondo. “Mai smettere di cercare“, perché la fotografia è un cammino spirituale: ogni scatto è una scoperta, ogni progetto un viaggio verso una comprensione più profonda di sé e della realtà.
Essere unico significa non solo sviluppare uno stile personale, ma anche rifiutare le imitazioni, cercare sempre una propria visione, e non scattare solo per seguire le mode o le aspettative degli altri. Essere Unico vuol dire che ogni fotografia porta dentro qualcosa di profondamente tuo, qualcosa che nessuno altro potrebbe catturare nello stesso modo. Porrebbe tradursi in un principio come: “Non esiste una verità assoluta nell’immagine, esiste solo la mia visione.
Non smettere mai di crederci, ma soprattutto non smettere mai di fare. Il talento senza costanza si disperde, l’ispirazione senza azione resta solo un’idea. In un mondo in cui tutti possono proporsi, la differenza la fa chi ha davvero qualcosa da dire e lo dice con autenticità e disciplina. Oggi la fotografia è inevitabilmente legata alla tecnologia, all’intelligenza artificiale, ai social media. Il fotografo moderno è un ponte tra il passato analogico e un futuro digitale in cui la realtà può essere alterata con un clic.
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