La cannabis, da sempre al centro di dibattiti legati alla salute, alla legalità e all’economia, sta vivendo una nuova ed inaspettata fase di attenzione. Recenti studi, infatti, primo fra tutti quello dell’Università di Stellenbosch, hanno identificato per la prima volta una classe rara di composti, i flavoalcaloidi, presenti nelle foglie della pianta. Questa scoperta sensazionale apre a nuove prospettive terapeutiche, suggerendo la potenziale esistenza di ambiti medici ancora inesplorati. Tuttavia, se da un lato la scienza non smette di avanzare ogni giorno, dall’altro le politiche, specialmente quella italiana e, più in generale, quelle occidentali, sembrano (voler) rimanere indietro, con provvedimenti legislativi che non solo riflettono più pregiudizi che decisioni basate su dati concreti, ma che rischiano di minare le opportunità di ricerca e l’avanzare degli studi in ambito scientifico.
La scienza non è una religione; è un metodo per capire la realtà — Carl Sagan
Tralasciando le numerose polemiche e le fondate preoccupazioni legate al consumo (solitamente eccessivo) di cannabis, quest’oggi mi piacerebbe focalizzarmi esclusivamente sullo studio condotto in Sudafrica e pubblicato, in seguito a revisione paritaria, sul Journal of Chromatography A, nonché sulle limitazioni che esso mette in luce. I flavoalcaloidi, per chi non ne fosse a conoscenza, sono composti fenolici noti per le loro proprietà antiossidanti, antinfiammatorie e antitumorali. La loro presenza nelle foglie di canapa, fino ad ora considerate scarti, suggerisce che l’intera pianta potrebbe essere una risorsa terapeutica sottoutilizzata e decisamente sottovalutata.
Gli scienziati dell’ateneo universitario in questione, in particolare, hanno identificato 79 composti fenolici in tre varietà di cannabis, di cui 25 mai osservati in precedenza. Insomma, un passo in avanti che ci mette di fronte, ancora una volta, alla complessità della natura e alle infinite possibilità, il più delle volte sconosciute, che essa è in grado di offrirci al fine di migliorare il nostro tenore di vita. Ma in che modo i cittadini potrebbero beneficiarne se la politica risulta essere piuttosto scettica e cinica a riguardo?
Prendendo in considerazione la classe dirigente italiana, ad esempio, sebbene ci siano evidenze scientifiche dei benefici che la cannabis può apportare, e lo studio sudafricano è soltanto l’ultima delle svariate prove fornite dalla comunità accademica, questi vengono puntualmente oscurati dalla cattiva “pubblicità”, si fa per dire, legata alle ben note sostanze a base di TCH e CBD, il cui consumo, in numerosi Paesi, è severamente, e per certi versi giustamente, vietato.
A tal proposito, nei mesi scorsi il governo italiano ha introdotto il “Decreto Sicurezza”, che vieta la coltivazione e la vendita persino di cannabis light, con basso contenuto di THC. Questa decisione ha suscitato polemiche e ricorsi legali, con alcuni giudici che hanno liberato i coltivatori arrestati, sostenendo che non si trattava di sostanze stupefacenti. Inoltre, il divieto ha avuto impatti economici significativi, mettendo a rischio circa 30.000 posti di lavoro nella filiera preposta e costringendo le aziende a restituire finanziamenti ricevuti, in caso di mancato rispetto di determinati requisiti.
Tuttavia, se regolamentata in maniera appropriata, la cannabis potrebbe non solo rappresentare una vantaggiosa risorsa economica, ma potrebbe sopperire ai fabbisogni terapeutici suggeriti, tra le altre cose, anche dalla novità dei flavoalcaloidi. Il tutto senza contare, naturalmente, gli studi già confermati in relazione agli effetti benefici del CBD nel trattamento di diverse patologie. Pertanto, non sarebbe il caso di prendere in considerazione un approccio differente, magari più aperto, nei confronti della questione al solo ed unico fine di promuovere una gestione più razionale, consapevole e vantaggiosa di quella che potrebbe essere, a tutti gli effetti, una risorsa e sfruttarne appieno, in tal senso, i benefici che può apportare?
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