#Focus

Dallo Scandalo del Watergate all’attentato a Sigfrido Ranucci: il giornalismo come faro di realtà in un mondo che vive di propaganda

Correva l’anno 1972 quando quello che sarebbe divenuto conosciuto come Scandalo del Watergate cominciò a delinearsi nel silenzio ovattato dei palazzi del potere statunitense. All’epoca, in una maniera che si potrebbe ritenere quasi analoga a quanto accade oggi, l’America era una Repubblica Federale divisa e profondamente segnata dalle ferite del conflitto in Vietnam (1955-1975), una guerra lunga, costosa e impopolare che spaccò in due la società e lasciò il Paese privo di ogni certezza. Un momento storico particolare, dunque, durante il quale nessuno avrebbe mai immaginato che, nel complesso di uffici del Watergate, a Washington DC, stesse per consumarsi una vicenda che avrebbe finito per travolgere la presidenza del repubblicano Richard Nixon e mettere in discussione la fiducia dei cittadini nelle istituzioni chiamate a rappresentarli.

Ma che senso ha ricordarlo oggi? Ebbene, un senso ce l’ha, perché, in un periodo di continui attacchi alle fondamenta degli apparati democratici e di impietosa delegittimazione dei media tradizionali, ripercorrere le tappe fondamentali di uno degli scandali più discussi della Storia recente significa riflettere su quanto fragile possa rivelarsi la democrazia quando il potere politico si sottrae al controllo e su quanto resti decisivo, ora come allora, il ruolo di una stampa indipendente nel difendere non solo la verità, ma anche (e prima di ogni altra cosa) la libertà stessa.

L’inizio dello ‘Scandalo del Watergate’: una miccia che fece “saltare in aria” la Presidenza di Nixon

Tutto ebbe inizio il 17 giugno 1972, con l’irruzione notturna di agenti federali negli edifici amministrativi della Virginia Avenue che portò all’arresto di cinque uomini. Il fatto, perlomeno inizialmente, venne ridotto ad una ‘semplice’ curiosità di cronaca, con accuse formali che parlavano di tentativo di furto con scasso e posizionamento di microspie. Ciò nonostante, quel piccolo avvenimento, all’apparenza assolutamente marginale, avrebbe portato presto alla scoperta di una fitta rete di manovre che avrebbero cambiato per sempre il rapporto tra politica e stampa, contribuendo, tra l’altro, a ridefinire il ruolo chiave del giornalismo nella democrazia moderna.

Richard Nixon in una conferenza alla Casa Bianca il 15 marzo 1973, quando annunciò che non avrebbe permesso al suo consulente legale, John Dean, di testimoniare nell’ambito delle investigazioni sul caso Watergate/Credit: USNews

Difatti, le indagini successive svelarono un intricato sistema di spionaggio politico ai massimi livelli, con finanziamenti illeciti e tentativi di insabbiamento che vedevano il diretto coinvolgimento della Casa Bianca e, non ultimo, del Presidente in persona. Nello specifico, secondo quanto accertato nel corso delle inchieste giornalistiche e giudiziarie, i membri dello staff presidenziale e del comitato elettorale (il Committee to Re-elect the President, CREEP) avevano attuato un’operazione illegale contro il Partito Democratico, volta a spiarne i membri per ottenere informazioni riservate utili alla campagna elettorale e assicurare, di conseguenza, un nuovo mandato Nixon nelle elezioni di quell’anno. Cosa che, di fatto, avvenne.

Il Saturday Night Massacre e le dimissioni presidenziali nel 1974

Per fortuna le inchieste proseguirono, finché non si giunse al 20 ottobre 1973, data che si consacrò come una delle più drammatiche dell’intero scandalo e che l’opinione pubblica denominò Saturday Night Massacre, ossia “il massacro del sabato sera“. Quel giorno, infatti, il presidente ordinò il licenziamento del procuratore speciale Archibald Cox, nominato per indagare sulle intercettazioni illegali e sul tentativo di insabbiamento. Costui aveva richiesto le registrazioni segrete delle conversazioni avvenute nello Studio Ovale, ritenendole prove decisive per accertare la verità. E fu allora che il Presidente, temendo le conseguenze di una tale richiesta, impose al procuratore generale Elliot Richardson di licenziarlo.

Quest’ultimo, però, si rifiutò e, in un gesto di profonda integrità, si dimise. Anche il suo vice, William Ruckelshaus, non volle eseguire l’ordine dimettendosi a sua volta. Solamente il terzo nella linea di comando, ossia il procuratore generale ad interim Robert Bork, accettò di seguire le istruzioni presidenziali ponendo fine al mandato di Cox. La notizia esplose nella notte, scatenando un’ondata di indignazione pubblica senza precedenti. Per milioni di americani, in effetti, quel gesto rappresentò la concreta dimostrazione della volontà di ostacolare la giustizia nonché un chiarissimo abuso di potere.

L’inchiesta del Washington Post: Woodward, Bernstein e la forza della verità

Bob Woodward (oggi), giornalista del Washington Post/Credit: web

Le dimissioni a catena e l’ordine di Nixon segnarono un punto di non ritorno nella crisi politica già in corso, accelerando quel processo che il 9 agosto 1974, vale a dire, meno di un anno dopo, portò all’uscita di scena anticipata del Presidente repubblicano, il quale rinunciò definitivamente alla sua carica. Insomma, un autentico trionfo per coloro che si schierarono a difesa della verità e del sistema democratico, una vittoria che fu possibile non soltanto grazie all’operato degli inquirenti e delle commissioni parlamentari, ma soprattutto grazie al coraggio e alla perseveranza di due giornalisti del Washington Post: Bob Woodward e Carl Bernstein.

Quando la famosa testata cominciò ad occuparsi del caso, l’idea che potesse trattarsi di qualcosa che avrebbe travolto l’intera repubblica non era minimamente contemplata. Ciò nonostante, Woodward e Bernstein, due reporter relativamente giovani e a quel tempo poco conosciuti, decisero di non fermarsi all’apparenza e di scavare più a fondo. Intervistarono decine di testimoni, seguirono le tracce del denaro e verificarono ogni fonte, fino a che non scoprirono di cosa si trattava realmente.

Carl Bernstein (oggi), giornalista del Washington Post/Credit: web

Il loro lavoro fu piuttosto difficile e costellato di dubbi, specialmente per via delle reiterate minacce e delle continue pressioni che i due si videro costretti a subire. Fortunatamente, però, con l’appoggio del direttore Ben Bradlee e il fondamentale contributo dell’informatore “Gola Profonda”, che anni dopo si rivelerà essere il vicedirettore dell’FBI Mark Felt, furono in grado di rendere nota la verità. Senza il loro impegno e la loro determinazione, probabilmente, quelle informazioni non avrebbero mai visto la luce. E non si trattò solamente di un successo giornalistico o istituzionale, ma fu una prova schiacciante dell’influenza della stampa libera in quanto strumento di controllo del potere politico.

Il giornalismo come contro-altare di una politica fuori controllo

In particolare, lo scandalo del Watergate sancì il sacrosanto principio secondo cui, in una democrazia sana, la stampa non è un accessorio del primo partito di turno o un mero megafono di Governo, e questo indipendentemente dal colore o dall’ideologia che muove una qualsiasi fazione rispetto ad un’altra. Al contrario, esso è e DEVE ESSERE un contro-altare per una politica fuori controllo. Quando le istituzioni tradizionali falliscono o cedono alle tentazioni del potere, spetta ai giornalisti il compito di cercare la verità, in primis laddove essa potrebbe risultare più scomoda.

Certo, un giornalismo del genere richiede tempo, risorse e, non ultima, indipendenza. Non si può negare che Woodward e Bernstein poterono lavorare in piena libertà perché il Washington Post li sostenne, perfino di fronte alle minacce politiche e alle accuse di slealtà verso il proprio Paese. Ed è proprio questo il punto: il giornalista deve costituire un faro di realtà in un mondo, specie quello odierno, che vive di propaganda e deve avere a disposizione tutti gli strumenti per poter svolgere il suo compito nella più completa autonomia.

Tra manipolazione disinformata e delegittimazione autorizzata

Capacità, quest’ultima, che sembra venire meno ogni giorno. Viviamo un’era in cui la sregolatezza del consumo, incluso quello dell’informazione, ha intaccato la profondità e la credibilità di ciò che si vuole comunicare, dove le redazioni sacrificano l’accuratezza in nome dell’immediatezza; un’era in cui la disinformazione organizzata e la manipolazione algoritmica, spesso e volentieri, vengono legittimate niente meno che da chi, più di chiunque altro, dovrebbe impedirne la diffusione.

Molti giornalisti, in Italia e nel mondo, continuano a pagare un prezzo altissimo solo perché non fanno altro che svolgere al meglio il proprio lavoro. Basti pensare all’assassinio di Daphne Caruana Galizia a Malta, alle intimidazioni contro la stampa indipendente in Russia, in Turchia o in America Latina, ai numerosi giornalisti brutalmente uccisi nella Striscia di Gaza dall’esercito israeliano, alle attività di screditamento messe in atto a più riprese dalla classe dirigente e al recente attentato alla vita del collega Sigfrido Ranucci, a cui la nostra massima solidarietà, che dovrebbero farci notare quanto la libertà di stampa sia purtroppo un diritto fragile.

Sigfrido Ranucci, già sotto scorta dal 2009, bersaglio (fortunatamente illeso) di un attentato che ha portato all’esplosione della sua auto parcheggiata dinanzi alla sua abitazione di Pomezia/Credit: web

Nelle democrazie occidentali, poi, specie in quelle dove meno ce lo aspetteremmo, le pressioni politiche ed economiche si manifestano in forme più sottili: concentrazioni editoriali, pubblicità condizionata, campagne di delegittimazione. Che dire, la verità è che il giornalismo libero non è mai garantito a priori, anzi va costantemente difeso, alimentato e sostenuto nell’ottica della trasparenza e della responsabilità pubblica.

La libertà di stampa non è un privilegio dei giornalisti, ma un diritto dei cittadini!

Perché? Beh perché la libertà di stampa non è un privilegio dei giornalisti, ma un diritto dei cittadini, e perché senza un’attività giornalistica autonoma la democrazia diventa cieca. La verità, contrariamente a quel che è comune pensare, non si impone da sola, ma necessità pedissequamente tanto di voci che la cerchino e che la sostengano quanto di lettori che siano capaci di riconoscerla e che si mobilitino per difenderla.

Ed è proprio per questo che, alla luce di quanto accade nella stragrande maggioranza dei casi anche nel nostro Paese, mi viene spontaneo chiedermi se ci sia, seriamente, ancora spazio per un giornalismo abile nel mettere in discussione la realtà politica e sociale che ci circonda, senza che si ritrovi alla gogna per questo, oppure se ormai ci sia posto solo per un tipo di giornalismo buono giusto ad accarezzare l’Esecutivo del momento.

Se la stampa costituisce davvero quel “quarto potere” di cui si (stra-)parla tanto, allora la sua forza deve dipendere dal sostegno che ciascuno di noi è in grado di offrirgli perché, se pensiamo ai risultati raggiunti da Woodwarn e Bernstein, potrebbe essere l’ultimo baluardo che ci resta per difendere la nostra democrazia.

La libertà di stampa non è solo importante per la democrazia: è la democrazia – Walter Cronkite

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Diego Lanuto

Classe 1996, studente laureando in “Lingue, Culture, Letterature e Traduzione” presso l’Università di Roma ‘La Sapienza’. Appassionato di scrittura, danza, cinema, libri, attualità, politica, costume, società e molto altro, nel corso degli anni ha collaborato con diversi siti d'informazione e testate giornalistiche (cartacee e digitali), tra cui Metropolitan Magazine, M Social Magazine, Spyit.it, Art&Glamour Magazine ed EVA3000. Ha scritto alcuni articoli per la testata giornalistica cartacea ORA Settimanale. Ha curato progetti in qualità di addetto stampa, ultimo dei quali "L'Amore Dietro Ogni Cosa" (NewMusic Group, 2022). Attualmente, è redattore presso la testata giornalistica Vanity Class e caporedattore per L'Opinione.

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