Sopravvivere alla nostra quotidianità pare essere diventato una disciplina olimpionica, di cui siamo più o meno tutti, a seconda di ogni eventualità o circostanza, dei campioni mondiali. Uno sport nazionalpopolare fatto di burocrazia, farmaci e quel pizzico di ipocrisia che per i tuttologi dei giorni nostri non guasta e non basta mai. Ma non sarebbe sufficiente vivere con dignità, persino il più grande dei dolori? Qualcuno risponderebbe “sì”, la vita in fondo non è altro che un piacevole imprevisto. Altri, invece, direbbero “no”: troppa fatica, perché è sempre meglio trascinarsi e respirare a vuoto, in un corpo che implode, in un’esistenza che non parla più la nostra lingua. D’altronde, la morte è la sola cosa democratica che ci è rimasta: capita a tutti, ma non tutti la scelgono, vero Giorgia Melo’?
La vita è un sogno da cui ci si sveglia morendo – Virginia Woolf
Nei giorni scorsi, una delle poche notizie degne di cronaca è stata l’ultima volontà dello scrittore Daniele Pieroni, che ha avuto il coraggio di non doversi accontentare più di respirare e che, con un gesto scandalosamente sobrio e incredibilmente umano, non solo ha fatto tremare lo Stato, la Chiesa e i paladini della morale prêt-à-porter, ha scelto di porre fine ad un’esistenza che sapeva già di morte, in un Paese dove si è più liberi di farsi umiliare che di morire con dignità.
No, Daniele non si è semplicemente “tolto la vita”, si è ripreso il diritto e la libertà di viverla a modo suo, fino all’ultimo istante. E questo in un’Italia che, piuttosto che sporcarsi il cuore, preferisce di gran lunga lavarsi le mani, sudice e insozzate di tutte quelle ingiustizie di cui si è macchiata. Difatti, dal 2008, quello che per me è oggi un eroe viveva con la PSP, ossia con una paralisi sovranucleare progressiva, una forma rara e molto rara di Parkinson, irrimediabilmente vincolato all’immobilità come Gesù Cristo alla sua croce e immerso in un dolore costante. Eppure, con quella lucidità che nessuna malattia può strapparti mai del tutto, ha deliberatamente deciso, non tanto per rassegnazione ma per rispetto di sé, di andarsene.
E allora diciamolo: quanto è vigliacca una società che difende la “sacralità della vita” solo finché non le conviene guardarla negli occhi? Che ti lascia libero di autodistruggerti in mille modi, ma ti nega la libertà più intima e radicale: quella di dire “basta” quando la sofferenza diventa un’autentica tortura, la stessa che, tra l’altro, potrebbe essere punita dall’art. 613-bis del Codice Penale del nostro ordinamento?
Il gesto di Daniele, che è il primo caso di suicidio assistito avvenuto in Toscana e per estensione in Italia, è uno schiaffo in faccia ai moralismi da talk show, alle lacrime finte, alle bestemmie istituzionali. È la risposta silenziosa a un sistema che ti incatena in nome di valori che nessuno vive più, ma che tutti pretendono di difendere. Perché, si sa, è meglio parlare d’altro, invocare la “speranza”, come se fosse un farmaco, o confondere l’accanimento con la cura, la rassegnazione con la fede.
Daniele ha avuto il coraggio di fare quello che molti non faranno mai: ha scelto se stesso senza chiedere il permesso a nessuno. Senza paura di scandalizzare i benpensanti. Senza piegarsi alla religione del “resistere sempre”, anche quando non ha più senso!
E forse, in fondo, non è la morte a spaventarci. È chi la affronta da uomo libero. Perché ci ricorda tutto ciò che non siamo e che, forse, non diventeremo mai: coraggiosi, onesti, vivi.
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Perché, non è sacralità decidere di proseguire la propria vita diversamente? Solo chi crede nella morte come fine e non come inizio la teme .Daniele ha solo scelto di proseguire il suo cammino in una diversa dimensione rispettando a pieno la sua dignità.