Oltre Il Tempo: Storie di Grandi Vite

Esther Jones, la musa dimenticata che ha dato vita al mito di Betty Boop: ennesimo esempio di cultura nera sfruttata e non celebrata

Esther (Lee) Jones, meglio conosciuta (e forse mai riscoperta del tutto) con il suo nome d’arte “Baby Esther”, fu una stella che brillò fugacemente, seppur con intensità, nei cieli del jazz degli anni ’20. Nata a Chicago tra il 1918 e il 1921, portava con sé la grazia e la meraviglia dell’infanzia, e con una voce giocosa e incantatrice sapeva trasformare ogni palco in un sogno vivente.

Oggi la si ricorda, tardivamente, come un’anima luminosa nella costellazione del jazz e, a onor del vero, è stata una pioniera silenziosa che ha lasciato il segno con grazia ed incanto. La sua voce, tenera e ribelle, ha ispirato non solo melodie ma anche icone diventando, a insaputa di molti, la musa invisibile dietro l’incantevole sorriso e l’inconfondibile voce del celeberrimo personaggio di Betty Boop, che senza di lei non avrebbe mai visto la luce.

L’esclusione di Esther Jones dalla narrazione ufficiale

È sorprendente, tuttavia, constatare quanto la figura di Esther sia stata a lungo trascurata nella narrazione ufficiale sulla nascita di Betty. Eppure il suo canto — un dolce sussurro di boo-boo-boo — danzava leggero tra le note, rapendo i cuori del pubblico del leggendario Cotton Club di Harlem. I suoi occhi riflettevano le luci della ribalta e la sua voce era un sussurro d’innocenza e seduzione, capace di stregare perfino le platee europee.

Durante il suo tour del 1929, ad esempio, si esibì dinanzi a nobili e sovrani, ricevendo l’epiteto affettuoso di Miniature Josephine Baker e consacrandosi come la prima celebrità nera tra le più acclamate di Parigi. Per di più, come se non fosse già abbastanza, sul finire degli anni ’80, lottò contro il razzismo a favore dell’emancipazione dei neri, sostenendo in particolar modo il movimento per i diritti civili negli Stati Uniti.

Betty Boop/Credit: web

Una luce avvolta dall’ombra dell’oblio

Insomma, una donna dal percorso significativo, che aveva tutte le carte in regola per essere ricordata con maggior rispetto e una più adeguata riverenza. A lei, infatti, fece eco Helen Kane che, colpita dal suo stile unico, la omaggiò nel famoso boop-oop-a-doop portandolo al successo con “I Wanna Be Loved by You”. Sfortunatamente, però, come spesso accade alle stelle più luminose, anche Esther Jones è andata incontro, suo malgrado, all’ombra dell’oblio.

Della sua vita dopo il clamore, in effetti, si sa davvero poco. Alcuni raccontano che svanì nell’anonimato, altri parlano di un addio precoce nel 1984. Quel che è certo è che, per troppo tempo, è rimasta una figura silenziosa che ha dato per giunta voce alla “diva dei cartoon”.

Betty Boop

Difatti, nel 1930 Max Fleischer e Grim Natwick crearono Betty prendendo spunto nientemeno che a Baby Esther. Il cartone animato, che in tanti, soprattutto le nuove generazioni, ricorderanno sicuramente per il film animato “Chi ha incastrato Riger Rabbit?”, è diventato un simbolo dell’epoca nonché uno dei primi motori propulsori dell’animazione. Peccato non poter dire lo stesso per la beniamina che ne ha ispirato i natali, la cui “esclusione dalla storia” si deve forse in parte al razzismo sistemico e all’appropriazione culturale tipicamente statunitensi in quel periodo.

Appropriazione culturale e razzismo sistemico

Non a caso, Betty è bianca sebbene si rifaccia ad una giovane afroamericana prodigio. Ma perché? Ebbene, il motivo è da imputare al fatto che, all’epoca, non era socialmente o commercialmente accettabile creare un personaggio nero come simbolo della cultura pop mainstream. L’industria dell’animazione e dell’intrattenimento, poi, era dominata da creatori bianchi e il pubblico di riferimento era prevalentemente bianco. Il che, lasciatecelo dire, ha portato all’usanza, sempre che tale si possa definire, di prendere elementi stilistici o culturali creati da artisti neri (musica, modo di parlare, estetica e chi più ne ha, più ne metta), sbiancarli e venderli come fossero delle novità originali.

Per tale ragione, ad Esther non è stato dato alcun credito, tant’è che il personaggio non ne rispetta tutt’ora l’identità. Anzi, si è vista oscurata, mentre il personaggio animato che le deve ogni cosa ha fatto la sua fortuna perché più “vendibile” per gli standard di quel tempo. Che dire, Betty sarà pure una leggenda, ma le sue radici non sono altro che l’ennesimo esempio di come la cultura nera sia stata in più di un’occasione sfruttata e mai adeguatamente celebrata.

E così, oggi Esther vive nei sussurri del passato, nella memoria della musica, come una melodia dolce e sfuggente che risuona nella storia senza che questa abbia mai chiesto nulla in cambio!

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Simone Di Matteo

Simone Di Matteo, Latina 25 gennaio 1984. Curatore della DiamonD EditricE, autore, scrittore e illustratore grafico è tra i più giovani editori italiani. I suoi racconti sono presenti in diverse antologie. Molti dei suoi libri invece sono distribuiti all'interno degli istituti scolastici italiani. È noto al grande pubblico non solo esclusivamente per la sua variegata produzione letteraria, ma anche per la sua partecipazione nel 2016 alla V edizione del reality on the road di Rai2 Pechino Express. Consacratosi come Il giustiziere dei Vip, da circa due anni grazie a L’Irriverente, personaggio da lui ideato e suo personale pseudonimo, commenta il mondo della televisione, dei social network e i personaggi che lo popolano, senza alcun timore, con quel pizzico di spietatezza che non guasta mai attraverso le sue rubriche settimanali.

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