Sara Campanella, uccisa probabilmente Stefano Argentino (al momento è solo tra i sospettati) dal collega di università che aveva ignorato ripetutamente il suo “no” dopo cinque giorni dalla richiesta della tesi e che la perseguitava da due anni, e Ilaria Sula, uccisa per mano di Mark Samson, un fidanzato incapace di accettare la separazione, e trovata in una valigia. Tante sono le vite spezzate, altrettanti (e forse ancor di più) quei femminicidi sempre più numerosi che mietono vittime la cui unica colpa è quella di essere “donne”, molti i sogni infranti e numerosissime le famiglie distrutte. Eppure, l’unica risposta ufficiale che siamo capaci di dare è spesso una fiaccolata, un minuto di silenzio o una manifestazione simbolica che, diciamocelo, non bastano a cambiare la realtà quotidiana.
Il femminicidio è la manifestazione più estrema della violenza contro le donne, un crimine che riguarda tutti noi e che non possiamo più tollerare – Giovanna Melandri
Questi casi diventano numeri, che non tengono conto delle molteplici vittime non denunciate o dei casi mascherati, ma che evidenziano come la violenza di genere sia ancora una piaga che affligge la nostra società. 2023, 117 donne uccise. 2024, 113. Ora siamo ad inizio 2025 e Sarà è già la tredicesima. Dietro ogni statistica, c’è una donna, una figlia, una sorella, una compagna di vita, la cui morte non può e non deve essere ridotta più ad un semplice dato numerico.
È fondamentale comprendere che il femminicidio non è un omicidio qualunque. Non si tratta di un atto criminale isolato, ma della manifestazione estrema di una cultura patriarcale che, per troppo tempo, ha normalizzato e minimizzato la violenza contro le donne. La dinamica alla base di questi crimini è sempre intrisa di disuguaglianze di potere, controllo e oppressione. Trattare il femminicidio allo stesso modo degli altri omicidi equivale a banalizzare l’intero sistema di discriminazioni e violenze di genere che lo alimenta.
Un ulteriore elemento di indignazione riguarda il modo in cui i media e alcuni quotidiani raccontano queste tragedie. Troppo spesso, infatti, si assiste a una narrazione che, a tratti, romanticizza o addirittura minimizza la brutalità del gesto. Titoli che dipingono l’omicida come “un povero uomo col cuore spezzato”, o articoli che suggeriscono che la vittima o i suoi familiari abbiano in qualche modo facilitato la tragedia per non aver denunciato “in tempo” o “abbastanza”, contribuiscono a distorcere la percezione della violenza di genere.
Ad esempio, non è raro leggere nei titoli delle cronache di raptus o follia improvvisa come se l’omicidio fosse una cosa improvvisa. Eppure il raptus non è clinicamente provato. Quindi frasi come “Amore finito in tragedia: quando il dolore diventa violenza” o “Il dramma di una passione che ha preso una piega fatale”, che tentano di trasformare un atto di odio e controllo in una storia di sventure sentimentali, sminuendo anni di persecuzioni e premeditazioni.
Queste narrazioni, lungi dall’aiutare a comprendere la gravità del fenomeno, rischiano di offuscare la realtà: la violenza contro le donne non è il risultato di un’insicurezza o di un male di cuori infranti, ma di una cultura che, giorno dopo giorno, insegna che il “no” di una donna può essere ignorato o messo in discussione. E quindi bisogna ricordare che la responsabilità di un atto di violenza è del suo autore e non della vittima.
Noi non vogliamo essere ridotte a medie statistiche o a titoli di giornale che raccontano storie di un destino ineluttabile. Vogliamo laurearci e studiare, non vogliamo ricevere lauree ad onorem da morte. Vogliamo vivere e, soprattutto, sentirci sicure nelle strade e nei mezzi pubblici, libere di dire “no” senza temere ripercussioni mortali. È urgente che il dibattito pubblico, le istituzioni e i media rivedano il proprio approccio: dal linguaggio usato nelle cronache alla formulazione delle politiche di prevenzione, ogni aspetto deve essere ripensato per porre fine a una spirale di violenza che da troppo tempo sembra non avere via d’uscita.
Vogliamo prevenzione ed educazione, emotiva e sessuale. Abbiamo bisogno di famiglie che crescano figli responsabili e non figlie che devono trovare strumenti per tutelarsi.
Il 7 marzo 2025 è stato approvato il DDL per rendere il femminicidio un reato autonomo. Ma questo basta? La repressione arriva sempre dopo, ma non è sufficiente a prevenire.
La nostra rabbia non deve essere confinata in manifestazioni simboliche, ma trasformata in azioni concrete e strutturali. Le statistiche sono un campanello d’allarme: ogni numero è una donna che non tornerà più, un futuro che si è spento. È giunto il momento di dare voce a un cambiamento radicale, di denunciare ogni forma di colpevolizzazione e di abbracciare una cultura del rispetto e della protezione, dove il “no” sia davvero detto, ascoltato e soprattutto rispettato.
La nostra denuncia è un urlo di speranza e di ribellione contro un sistema che, da troppo tempo, non ha saputo proteggere chi è più vulnerabile. È tempo di agire, di cambiare le regole del discorso e di trasformare il dolore in una forza capace di generare giustizia e verità!
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