Viviamo in un tempo in cui l’informazione si consuma con la stessa rapidità con cui si scorrono le storie su Instagram o i video su TikTok. Ogni giorno dovremmo interrogarci sul tipo di consapevolezza che i nostri ragazzi stanno sviluppando, immersi in un ecosistema informativo che ha rivoluzionato il modo stesso di conoscere, comprendere e formarsi un’opinione.
Secondo il recente rapporto Censis, la maggioranza dei giovani oggi si informa quasi esclusivamente attraverso i social, snobbando i media tradizionali: ben il 70,3% dei giovani tra i 14 e i 29 anni non è d’accordo con l’affermazione “non potrei vivere senza informazione tradizionale (tv, radio, quotidiani)”. Un numero davvero troppo alto!
Da un lato, ci sono indubbi vantaggi. I social democratizzano l’accesso alle notizie: chiunque, ovunque, può venire a conoscenza di un fatto, anche in tempo reale. Si aprono voci alternative, si amplificano battaglie invisibili, si rompono i monopoli della narrazione. I ragazzi si sentono protagonisti, non più solo spettatori passivi. C’è un’energia nuova, una partecipazione che può diventare anche motore di cambiamento.
Eppure, ogni medaglia ha il suo rovescio. Perché, se la libertà d’accesso non è accompagnata da una capacità critica, rischia di diventare anarchia informativa. I social, per quanto veloci e stimolanti, non sono pensati per approfondire. L’algoritmo non ha etica né dovere di verità: offre ciò che fa comodo, ciò che coinvolge, ciò che fa clic. E così, la verità si perde tra like, slogan e storytelling ad effetto.
Preoccupa ancor di più la rimozione recente di strumenti come il fact-checking da alcune piattaforme, lasciando spazio a una giungla dove ogni verità può essere manipolata, distorta, ricostruita ad arte. È il terreno perfetto per la disinformazione, per le narrazioni tossiche, per il dominio dell’emozione sulla ragione.
In tutto questo, assistiamo anche a un attacco sottile – e talvolta sfacciato – al giornalismo professionale. Alcuni CEO di piattaforme importanti promuovono apertamente la sfiducia nei confronti dei media tradizionali, incoraggiando gli utenti a “informarsi direttamente” sui social, quasi che la competenza, la verifica delle fonti, la deontologia giornalistica siano diventate optional, se non fastidi da evitare.
Senza contare l’utilizzo spropositato dell’intelligenza artificiale nella creazione di contenuti, una pratica che fa acqua da tutte le parti poiché, anche in questo caso, vengono meno etica, controllo delle fonti e deontologia.
Questa campagna di svilimento non è solo una battaglia economica tra modelli di business. È una battaglia culturale. E i primi a pagarne il prezzo sono i giovani, privati di punti di riferimento autorevoli, disorientati tra infinite opinioni spacciate per fatti, e confusi su cosa significhi davvero sapere qualcosa.
Un buon giornalismo può fare la differenza tra una società informata e una manipolata — Christiane Amanpour
Sul fronte dell’educazione, allora, occorre sentire forte il bisogno di rilanciare una parola antica e rivoluzionaria: responsabilità. Ai ragazzi dobbiamo insegnare non solo a cercare informazioni, ma a porsi domande, a dubitare, a costruire pensiero. A scegliere la complessità, anche quando costa più fatica di un video di 15 secondi. E dobbiamo anche noi, adulti, educatori, genitori, formatori, riprendere il nostro posto nel dialogo, senza demonizzare, ma nemmeno arrenderci all’idea che “ormai è così”.
Perché, se la verità è in crisi, la speranza di “lasciare il posto un po’ migliore di come l’abbiamo trovato” è ancora una scelta. E noi possiamo sceglierla ogni giorno, aiutando i giovani a navigare il mare dell’informazione con spirito critico, bussola etica e cuore acceso.
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