Cosa vuol dire, nel 2025, celebrare il mese dell’orgoglio LGBTQIA+? A cosa serve oggi una parata, una bandiera arcobaleno, uno slogan gridato in piazza? Sono domande che qualcuno considera retoriche, superate. Eppure, la loro urgenza torna a galla proprio ora, mentre i Pride, in alcuni luoghi del mondo, vengono vietati, criminalizzati o ridotti a “capricci di una minoranza rumorosa”. Succede in Ungheria, dove Viktor Orbán ha impedito ufficialmente tutte le marce dell’orgoglio sul suolo nazionale. Succede in altri Paesi europei, e a tratti anche nei silenzi delle nostre città.
Essere se stessi in un mondo che cerca costantemente di cambiarti è il più grande dei trionfi — Ralph Waldo Emerson
Giugno è il Pride Month, e non è una festa, o perlomeno, non è soltanto questo. Al contrario, costituisce un momento di commemorazione, una dichiarazione politica, una forma di memoria. È il ricordo vivo di quella notte del 1969 allo Stonewall Inn, quando trans, drag queen, lesbiche, gay e persone nere si ribellarono all’ennesimo sopruso della polizia. Non fu una celebrazione, fu un atto di disobbedienza. La scintilla iniziale di un movimento che ancora chiede, e spesso implora, visibilità, rispetto, sicurezza, diritti.
Ma oggi? È ancora necessario marciare? Sono questi i quesiti che qualcuno potrebbe porsi e ai quali, nella maggior parte dei casi, in pochi sarebbero in grado di trovare una risposta adeguata ed esaustiva. D’altronde, viviamo in un’epoca ambigua: se da un lato molte persone queer possono finalmente raccontarsi, vivere apertamente e costruire reti di comunità forti, dall’altro i segnali di ostilità stanno aumentando, spesso mascherati da “libertà d’opinione”, “tradizione” o “difesa dei bambini”. La retorica anti-LGBTQIA+ torna ciclicamente: nei parlamenti, nei talk show, nei social, perfino nelle aule scolastiche. In Italia, ad esempio, la proposta di legge Zan è stata affossata qualche anno fa, e da allora poco è cambiato sul piano normativo. In alcuni casi, i Pride vengono osteggiati apertamente dalle amministrazioni locali, o presentati come “inutili esibizionismi”.
È questo il nodo: il Pride non è una provocazione. È una risposta. A chi vorrebbe ridurre le vite queer a una parentesi da sopportare, a una fase da nascondere, a una devianza da correggere. È uno spazio fisico e simbolico dove si afferma che tutte le esistenze hanno pari dignità, anche e soprattutto quelle che storicamente sono state rimosse, marginalizzate o violentate. Marciare è dire: “Ci siamo. Non torneremo nell’ombra.”
È una domanda importante, che interpella anche dall’interno. Il rischio dell’omologazione commerciale, della retorica mainstream che rende l’arcobaleno un logo da vendere, è reale. Il Pride Month viene spesso assorbito dal marketing, dai brand, dalle corporation che si tingono di inclusività per un mese e poi dimenticano le persone queer per il resto dell’anno. Ma queste dinamiche non cancellano il valore radicale del Pride: lo rendono, semmai, ancora più urgente e bisognoso di autenticità.
E allora, cosa possiamo fare? Possiamo ricordare che il Pride non è solo la grande parata del sabato pomeriggio, ma anche i corpi che si tengono per mano nonostante gli sguardi ostili. È il diritto di un adolescente trans di essere chiamato con il proprio nome. È una madre che cambia idea dopo aver ascoltato. È un docente che protegge una studentessa lesbica dalle battute. È la politica che si fa linguaggio giusto, legge giusta, spazio sicuro.
Il Pride è il sogno, concreto e quotidiano, di una realtà in cui l’orgoglio non serva più per difendersi, un’utopia che forse non raggiungeremo tanto presto e con molta facilità Fino ad allora, comunque, giugno resta un atto di coraggio. E ogni passo in piazza, una risposta collettiva a chi ancora oggi vorrebbe farci tornare indietro!
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