Non siamo così diversi come crediamo: la natura parla di emozioni in ogni suo silenzio — Jane Goodall
C’è qualcosa di profondamente umano nel modo in cui gli elefanti affrontano la morte. Li si è visti toccare con la proboscide il corpo di un compagno caduto, restare immobili accanto a lui per ore, perfino tentare di sollevarlo come a volerlo riportare in vita. In India, ad esempio, alcuni ricercatori hanno documentato casi di “sepolture” di piccoli morti: le madri avrebbero trascinato i corpi in zone tranquille, coprendoli con foglie e terra. Scene che, ad un osservatore umano, non posso ricordare altro se non un autentico rito funebre.
Insomma, un comportamento strano, ma innegabilmente vero, che ci rammenta quanto la natura, a volte, sappia essere molto più umana di noi!
Ad ogni modo, gli scienziati preferiscono parlare di thanatologia animale, la branca che studia le reazioni alla morte negli altri esseri viventi. Sfortunatamente, però, per quanto tecnico possa apparire, il termine non riesce a contenere l’intensità emotiva di certi comportamenti. Perché quando un branco di elefanti si ferma davanti allo scheletro di un vecchio maschio e ne accarezza le zanne, la domanda sorge spontanea: che cosa stanno provando?
Eppure, questi giganti della natura non sono soli in questa silenziosa empatia. Scimpanzé che trasportano per giorni il corpo del loro piccolo, delfini che sospingono il cucciolo morto con il muso, corvi che si radunano attorno a un compagno caduto. Che dire, tutti frammenti di un mosaico emozionale che la scienza sta appena iniziando a comprendere.
Per quanto affascinante e, per certi versi, confortante tutto ciò possa sembrare, attribuire a questi gesti un significato umano sarebbe un errore: non possiamo sapere se provino dolore, consapevolezza della morte o un semplice istinto sociale. Ma qualcosa accade, e non si tratta solo di biologia. È come se in certi momenti la natura stessa, attraverso i suoi animali più complessi, si concedesse una pausa per riconoscere la fine di una vita.
Forse è proprio lì, in quel silenzio collettivo intorno a un corpo senza respiro, che si rivela un tratto universale: la capacità di riconoscere la perdita, di restare, anche solo per un attimo, accanto a chi non c’è più. Un gesto antico quanto la vita stessa e, chissà, magari non così diverso (seppur mai uguale ad esso) dal nostro modo di dire addio!
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