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Il natale di Roma: 2778 anni fa nasceva la “città eterna”

Il 21 aprile 753 a. C segna, secondo una tradizione inaugurata da Livio e Varrone, la data del natale di Roma. Oggi la città centro del più potente ed esteso Impero dell’antichità festeggia il suo compleanno, ammantata del fascino di un’origine che affonda nella leggenda, mentre annaspa tra le contraddizioni moderne.

La percezione del tempo della storia nella Roma antica era particolare. Essa differiva, ad esempio, da quella della vicina civiltà ellenica, che, alla percezione lineare del tempo, dello scorrere delle stagioni e degli anni, accompagnava una visione ciclica più ampia dello stesso, in base alla quale si pensava che il futuro avrebbe sempre in qualche modo ricalcato le orme del passato, in una ricorsività ripetitiva e immutabile, che affidava al cerchio l’immagine prediletta per veicolare il senso dell’eterno ritorno e della ripetizione delle vicende umane.

A Roma era differente. A Roma il tempo era essenzialmente lineare, una retta divisa in due segmenti da un evento storico unico, irripetibile e grandioso: la nascita di Roma. Tutto ciò che era avvenuto prima apparteneva al passato, mentre dall’altro lato della bipartizione si apriva una prospettiva di luminosa eternità, l’eternità di Roma. 

Ho dato loro un impero senza fine  – Virgilio, Eneide, Libro 1. 278-279

Con queste parole, che Virgilio nella sua Eneide fa pronunciare a Giove, la divinità profetizza la grandezza dell’Urbe, destinata a un glorioso dominio sul mondo, che si sarebbe esteso nello spazio e soprattutto nel tempo, in una prospettiva di gloria imperitura. 

Alle origini di Roma: la leggenda di Romolo e Remo

L’immortalità del dominio di Roma era percepito come vero e proprio dogma nel mondo latino dell’età imperiale. Ma come nacque l’Urbe e come si scelse la data del natale di Roma? 

Livio, nel primo libro dell’opera Ab Urbe condita, narra la famosa leggenda del mito di fondazione: alla morte di Proca, re di Alba Longa e discendente dell’eroe troiano Enea, doveva assumere il potere il figlio Numitore, ma il figlio minore, Amulio, riuscì con un colpo di mano a impossessarsi del trono, uccidendo la progenie maschile del fratello e costringendone l’unica figlia femmina, Rea Silvia, a diventare vestale, in modo che, vincolata dal voto di verginità, non generasse prole che potesse un giorno reclamare il trono. Alla fanciulla si presentò, però, Marte, dio della guerra, con il quale concepì due gemelli. Non appena venne a sapere il fatto, Amulio fece incarcerare la nipote e ordinò che i due bambini venissero gettati nel fiume Tevere. 

Eppure, la sorte aveva ben altri piani per i gemelli: il servo incaricato non ebbe il coraggio di portare a termine quella barbara uccisione, così li adagiò in una cesta e li affidò alle acque. La cesta, tuttavia, si arenò e i vagiti dei piccoli richiamarono l’attenzione di una lupa, che si preoccupò di allattarli (la leggenda ha attribuito le fattezze di animale a una più verosimile prostituta, che nel mondo romano veniva indicata sovente col termine “lupa”).  

Trovati da un pastore, i gemelli crebbero e, una volta scoperte le proprie origini, riconquistato il trono di Alba Longa e restituitolo al nonno Numitore, decisero di costruire una città nel luogo esatto dove erano cresciuti.

La fondazione di Roma e la datazione di Varrone

Nella città che si apprestava a sorgere, chi avrebbe dovuto governare? Trattandosi di gemelli non potevano applicare il criterio della primogenitura, dunque si affidarono alla divinità. Remo si collocò sul colle Aventino e osservò il passaggio di sei avvoltoi, mentre Romolo, dal Palatino, ne avvistò dodici: gli dei avevano scelto Romolo. Scaturì immediatamente una rissa, nella quale Remo rimase ucciso, mentre, secondo un’altra versione, fu lo stesso Romolo a uccidere il fratello, che per scherno aveva valicato le mura appena costruite della nuova città. In ogni caso, Romolo tracciò il pomerium, il confine sacro e inviolabile, sancendo con un gesto potente e simbolico la nascita di Roma, di cui divenne primo re.

La tradizione che stabilisce il 21 aprile 753 a. C. come data del natale di Roma rimonta a Marco Emilio Varrone, erudito romano di I secolo a. C. Egli aveva operato il calcolo secondo il metodo invalso al suo tempo, considerando cioè l’elenco dei consolati susseguitisi nel tempo (della durata di un anno ciascuno) a partire dall’insediamento dei primi due consoli, Bruto e Collatino, che diedero l’inizio dell’età repubblicana, fissata da Varrone al 509 a. C. Egli indicò tale data come l’anno 245 “ab Urbe condita” (letteralmente “dalla fondazione della città”), recependo quanto affermato dallo storico greco Dionigi di Alicarnasso, secondo il quale il periodo monarchico dei sette re di Roma sarebbe durato 244 anni. La datazione varroniana sul natale di Roma non ha avuto conferme scientifiche, ma ha riscosso tale fortuna nel corso dei secoli da divenire quasi intoccabile e tacitamente invalsa.

Il natale di Roma: la verità storica oltre il mito

Benché suggestiva e affascinante, la narrazione della fondazione di Roma appartiene al piano immaginifico del leggendario, ma in essa si compenetrano elementi di verità storica, accertati dagli studi e i ritrovamenti di storici e archeologi. Secondo quanto restituito dagli scavi l’area nella quale si sviluppò Roma – in particolare le colline del Palatino, dell’Aventino e del Quirinale – erano interessate da insediamenti scollegati tra loro fin dall’età del Bronzo (XIV-XII secolo a.C.).

Seppure il mito testimoni un atto fondativo individuale, la protostoria dell’Urbe è piuttosto da spiegare in termini di lungo processo di sinecismo: a partire dal X secolo, infatti, le comunità abitanti i colli iniziarono progressivamente a unificarsi e nell’VIII secolo – come si evince anche dalla leggenda – diedero origine al nucleo primitivo della città (strutturata in necropoli complesse, aree sacre e di mercato) e diedero una prima forma di organizzazione politica, probabilmente basata su re locali o capi tribù e aristocrazie guerriere.

Ciò che resta del passato

All’indomani della caduta dell’Impero romano d’Occidente (476 d.C.), Roma perse la sua centralità politica, ma mantenne il ruolo, ancora attuale, di epicentro religioso della cristianità e accanto al quale nel corso dei secoli si rinsaldò la funzione di fulcro culturale, intellettuale e artistico.

Ma cosa resta nella Roma attuale del suo glorioso passato? La stratificazione della bellezza di ogni periodo storico che ha attraversato la città – e si estrinseca non solo nelle fulgide vestigia dell’età romana repubblicana e imperiale, ma anche nei preziosi capolavori di epoca medievale, rinascimentale e barocca – rivela il ritratto impietoso di un paradosso stridente, quello di una Roma che un tempo dominò il mondo, ma è ormai incapace di gestire se stessa, fustigata dai ben noti problemi di viabilità e trasporto pubblico, dalla cronica difficoltà ad arginare il degrado urbano, dal sempre crescente divario tra il centro patinato e la periferia sofferente.

E se Dostoevskij scriveva «La bellezza salverà il mondo?», la nostra speranza è che davvero la bellezza possa salvare la città. Ma le polemiche lasciamole a domani, oggi limitiamoci a dire: buon compleanno, Roma.

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Tonia Di Fabrizio

Classe 1997, abruzzese di nascita e bolognese d'adozione. La passione viscerale per il greco e il latino l’ha portata a conseguire una laurea in "Filologia, Letteratura e Tradizione Classica". Eclettica ascoltatrice di musica, avida divoratrice di serie tv, balla il tango (non benissimo), pratica yoga per sentirsi radicata e legge libri per vivere mille vite. Scrive di ciò che la affascina e incuriosisce, nella speranza che anche i lettori possano esserne ammaliati a loro volta

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