Dietro la parola “Influencer” c’è ancora una sottile, dolciastra, vergogna. In chi la pronuncia. Ma non solo. Anche in chi non ne comprende del tutto il significato. E per finire, in rarissimi casi di sindrome dell’impostore, persino in chi la riconosce come il proprio lavoro. Una “vergogna buona” che è compagna di scuola della “bugia bianca”. Un sorrisetto morbidissimo con gli occhi da bambi che fa perdonare qualunque marachella. Potrei sintetizzare sgarbatamente che gli influencer (non tutti, eh!) sono dei monellini con gli occhi da bambi (credo di aver appena messo per iscritto la formula per riprodurli all’infinito. Senza nemmeno il bisogno dell’acqua come i gremlins).
Resta però indubbio il mio rispetto per chi influenza. Citando la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che a sua volta ha citato lo Zio Ben (Parker), che a sua volta parlava per volere di Stan Lee:
Da un grande potere derivano grandi responsabilità
Ed è forse il riconosciuto amore della Repubblica Popolare Cinese verso la Marvel Comics che credo abbia portato questa indiscussa superpotenza a disciplinare il potere (degli influencer) attraverso delle nuove regole definite nel “Codice di condotta per i conduttori online”. Ribaltando l’iper-segnalato assioma italico ferro-tramviario del “non parlare al conducente”.
Nello specifico, gli influencer cinesi che si occupano di temi riguardanti la Medicina, il Diritto, la Finanza e l’Istruzione dovranno dimostrare di avere delle qualifiche pertinenti e competenze verificate (tipo una laurea?) nelle materie di cui si occupano nella loro creazione di contenuti social. Il tutto dovrà essere supervisionato non solo dal Governo ma anche dai Provider (che lo faranno ovviamente de-responsabilizzandosi attraverso l’AI).
Questa attenzione del Paese del Sol Levante alle fonti ha due possibili letture, entrambe, a mio parere, corrette. La prima è legata al fatto che non tutti quelli che parlano di qualcosa sono necessariamente reali esperti dell’argomento (visto che i tutorial condensati in 5 minuti su YouTube hanno svoltato le giornate di molti e ad alcuni addirittura la vita). Pertanto, è giusto che qualcuno inibisca e cerchi di moderare la divulgazione di informazione da parte di alcuni approssimativi asiatici monelli portatori di occhi da bambi. La seconda, invece, riguarda il controllo dell’informazione e dell’espressione.
Entrambe le declinazioni interpretative, comunque, portano allo stesso risultato: dobbiamo sempre essere riportati all’ordine. Da quando l’essere umano ha inventato la ruota e l’ha usata per creare corsi di ceramica per i single milanesi di ambo i sessi, purché over 35, abbiamo sempre cercato di urinare fuori dal vaso e poi è sempre arrivato qualcuno a dirci che c’è un vaso. E se il vaso non c’era, allora lo inventavano loro. Anche questo sacrosanto.
L’utopia dell’anarchia è stata più volte dimostrata dalla settimana enigmistica. Non essendo capaci, spesso, di autoregolamentarci o di capire quali sono i confini della nostra auto-ipervalutazione, necessitiamo di un establishment addomesticante. Il medesimo che a volte non riconosce il vaso di cui prima e trasforma le regole in censura, controllo pervasivo e limitazioni del dissenso. Tant’è che la normativa cinese vieta specificamente contenuti che “indeboliscano, distorcano o neghino la leadership del Partito Comunista Cinese e del sistema socialista”.
Le valutazioni pratiche su questo contenimento dell’espressività possono essere fatte purtroppo solo a posteriori (ma quanto poco gusto c’è nell’incazzarsi solo prima che qualcuno ci dica di non fare qualcosa? Meglio farla e incazzarsi dopo che veniamo ripresi. Funziona di più!).
In Italia, invece, Paese di esperti dell’incazzarsi a posteriori, a seguito del tristemente noto Pandoro-gate, abbiamo da poco sfornato la nuova regolamentazione del settore influencer. Non di tutti però. Solo quelli da almeno mezzo milione di follower in su (o che registrano almeno 1 milione di visualizzazioni mensili), quelli che la regolamentazione stessa definisce “rilevanti”. Questa normalizzazione dell’AGCOM prevede la trasparenza pubblicitaria, la tutela dei minori (i baby influencer non dovranno però auto-tutelarsi. Dovranno chiedere a mamma e papà se possono intestargli tutti i loro futuri guadagni), il rispetto dei diritti fondamentali (no odio, no discriminazione, e perciò i trapper dovranno quindi crearsi diversi profili per non raggiungere mai i 500.000 followers), il rispetto dei dati personali.
Nessuna certificazione come richiesto dalla Cina (in Cina), dunque, e nessuna laurea. Per fortuna, in Italia possiamo contare su altri tipi di certificazione che possano permettere ai monellini nostrani con gli occhi da bambi di avere un pezzo di carta curriculante. Per esempio, per citarne una, c’è l’Università Pegaso che ci pensa e che, nella sua pagina informativa, dichiara di rivolgersi a “qualcuno che può informare e motivare le persone, influenzarne gli acquisti e le decisioni tramite messaggi strutturati e carichi di significato”.
È giusto preoccuparsi delle ripercussioni sulle limitazioni dei diritti personali (tra cui il diritto d’espressione sancito nell’articolo 21 della nostra Costituzione). Al contempo, lo è altrettanto dire che, per essere arrivati al punto che qualcuno ci debba dire cosa dobbiamo fare e come dobbiamo fare le cose forse qualche cazzata impunita – come comunità – l’abbiamo fatta. D’altronde, la parola “democrazia” viene da “démos” (popolo), e “krátos” (potere, governo, controllo) [Kràtos, per chi non lo sapesse, è anche una figura della mitologia greca che rappresenta il potere che domina e sottomette gli avversari, ed è figlio della ninfa Stige e del titano Pallante].
Siamo un po’ tutti dei masochistici monellini a cui in fondo piace essere sottomessi a qualcosa o qualcuno che ci dica cosa fare. Un “gregge disinteressato”, come diceva Harold Lasswell, nelle mani dei Potenti, dei Governi e pure degli influencer che possono trasformare i social in giganteschi specchi digitali che deformano la realtà attraverso flussi continui e ipnotici.
Ciò nonostante, il potere vero, quello rappresentativo, è nelle mani di tutti. Come singoli e come agglomerato civile. Vorrei che si potesse arrivare ad un momento in cui si riuscirà coscientemente a “spegnere” il feed (che, guarda caso, significa nutrimento). Un momento in cui si è felici di non guardare la story successiva. Radiosi nel definire l’ultimo momento del convulso swipe. Arrivare a “l’unica cosa che quando finisce tu sei felice” (cit. L’Uomo cannone, Tony Pitony). Atterrare nell’innalzamento della nostra progressione umana in cui spegnerci per un po’ (al diavolo la FOMO!). Disorientarci e ritrovarci nel silenzio della noia produttiva.
(Questi super giovani per fortuna ogni giorno se ne inventano una ed ora si sta diffondendo il raw-dogging sui voli. Ossia una sorta di nuova challenge in cui si trascorre un intero volo in aereo fissando il sedile di fronte) (forse i voli intercontinentali ci aiuteranno a salvarci).
Nella generazione delle immagini che accompagnano questo articolo, Nano Banana ha continuato per milioni di crediti a sostituire il mio prompt “Chinese flag” con un “red flag” impedendo la reale rappresentazione della gloriosa (insieme a quella d‘a Maggica) tessitura rosso-gialla. Sarà una questione di copyright sulle falci o sulle stelle!
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