Il caso di Johanna Nataly Quintanilla Valle, la babysitter salvadoregna di 40 anni, il cui corpo è stato ritrovato nell’Adda quasi un mese dopo la sua sparizione, non è solo l’ennesima tragica notizia che arriva dalle pagine dei giornali. È l’ennesimo femminicidio che ci interroga sulla drammatica realtà che le donne continuano a vivere, a volte nell’ombra di una violenza che le uccide fisicamente, ma anche psicologicamente.
La vicenda di Johanna, picchiata e strangolata dal suo compagno Pablo Gonzales Riva, la cui versione dei fatti è cambiata più volte per giustificare l’omicidio, ha scosso profondamente la nostra coscienza. Come molti altri casi, questo crimine segna un punto di non ritorno per una società che, troppo spesso, tende a chiudere gli occhi davanti alla violenza domestica e alle sue radici culturali.
La violenza contro la donna è il più grande ostacolo alla vera uguaglianza – Virginia Woolf
Johanna Valle, che aveva lasciato la sua terra d’origine per cercare una vita migliore in Italia, si trovava in una situazione in cui l’amore, che avrebbe dovuto essere un elemento di costruzione e di speranza, si è trasformato in un incubo senza via di scampo. Il suo sogno di una vita serena e di una famiglia si è spezzato, e la sua morte ci costringe a riflettere non solo sul dolore di una singola vittima, ma anche sul contesto in cui questo femminicidio è avvenuto: una società che, purtroppo, ancora oggi non ha imparato a dare valore alla vita.
Nei primi mesi del 2025, il numero dei femminicidi in Italia è già troppo alto, eppure la situazione rimane invariata. Ogni due giorni, una donna viene uccisa, spesso da un uomo che dice di amarla, da un compagno che non accetta la separazione, o da qualcuno che non sa più distinguere tra amore e possesso. Questo fenomeno non è solo una questione di crimine, ma anche di cultura. La violenza contro le donne affonda le sue radici in secoli di disuguaglianza e discriminazione. Le donne sono state, e in molte parti del mondo lo sono ancora, considerate proprietà dell’uomo, in una logica di sottomissione che giustifica abusi, prevaricazioni e, purtroppo, omicidi.
Il caso di Johanna Valle non è isolato. Ogni storia di femminicidio è il tragico epilogo di una storia fatta di abusi emotivi, psicologici e fisici. Pablo Gonzales Riva, nel suo tentativo di mascherare l’omicidio, ha cercato di giustificare il suo gesto come un “gioco erotico” finito male, ma la verità è ben diversa. Le indagini hanno rivelato che il compagno aveva una relazione con un’altra donna, una storia parallela che avrebbe fatto crollare la sua fragile maschera di rispettabilità. Questo elemento dimostra quanto spesso dietro un femminicidio ci siano motivazioni che vanno ben oltre il singolo atto di violenza.
Si tratta di un tentativo di controllo e possesso, di una mancanza di rispetto totale nei confronti della vita dell’altro, che può portare a esiti devastanti. Le donne vengono percepite non come esseri umani autonomi, ma come oggetti da possedere e controllare, un atteggiamento che va combattuto a tutti i livelli.
Nel 2013, l’Italia ha introdotto la legge sul femminicidio, aggiornata con “pena d’ergastolo” nei giorni scorsi dal Governo Meloni, un passo importante per riconoscere la gravità del fenomeno e per cercare di prevenire e contrastare la violenza di genere. Tuttavia, nonostante questa legge, il numero delle vittime continua ad aumentare. La legge è un importante strumento giuridico, ma non basta. Le istituzioni italiane devono fare di più per garantire che le leggi siano attuate con rigore e che le vittime di violenza possano accedere a supporto concreto e tempestivo.
Occorre anche un cambiamento profondo nelle politiche sociali e culturali. Le donne devono essere messe in condizione di vivere senza paura, di denunciare senza temere ritorsioni, di avere accesso a rifugi sicuri e a percorsi di supporto psicologico. È fondamentale che le istituzioni collaborino con le associazioni femminili, che hanno un ruolo chiave nel fornire supporto alle vittime, nella sensibilizzazione e nella formazione su temi cruciali come il rispetto, l’educazione affettiva e la parità di genere. Le campagne di sensibilizzazione, pur essendo un passo positivo, non devono limitarsi a eventi occasionali come la Giornata Internazionale della Donna, ma devono essere continuative e integrate nei programmi scolastici e nelle politiche pubbliche.
Il femminicidio non è solo un crimine violento, è un simbolo di una cultura che non è ancora riuscita a superare le radici della misoginia e della discriminazione di genere. La società deve fare un passo in avanti, partendo dall’educazione e dall’informazione. Dobbiamo insegnare ai giovani, fin da piccoli, il rispetto per l’altro, il valore dell’uguaglianza, e la consapevolezza che l’amore non può giustificare mai la violenza.
La lotta contro il femminicidio deve essere collettiva. Non possiamo restare indifferenti di fronte a una realtà che continua a mietere vittime. Le donne, ma anche gli uomini, devono essere coinvolti in questo cambiamento culturale. Non può esserci più spazio per l’idea che il possesso e la sopraffazione siano forme di “amore”. La violenza, qualsiasi forma di violenza, è il contrario dell’amore. È un tradimento della dignità umana.
Il caso di Johanna Valle, come tanti altri, ci invita a non dimenticare. La violenza contro le donne non può essere considerata un fatto isolato, né un problema che riguarda solo chi lo vive direttamente. È un problema che ci riguarda tutti. Ognuno di noi deve fare la propria parte, partendo dal rispetto, dall’ascolto, e dalla consapevolezza che la violenza è intollerabile in qualsiasi forma. Solo con l’impegno di tutti, uniti in una lotta per la parità, possiamo sperare di costruire una società che non abbia più bisogno di ricordare tragicamente i nomi delle donne uccise per mano di chi, troppo spesso, diceva di amarle. La battaglia contro il femminicidio deve essere una priorità per tutti, oggi e sempre.
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