La nuova forma di solitudine è quella economica.
Che si tratti di una pizza con gli amici, di un bicchiere di vino dopo il lavoro o di un concerto improvvisato in una sera di libertà, oggi uscire è diventato un piccolo lusso. Ma la cosa davvero inquietante non è che tutto costi di più. È che ci stiamo abituando a pensarla così. Come se la socialità, quella fatta di gesti spontanei e risate che non si programmano, fosse diventata un privilegio riservato a chi se lo può permettere. O peggio: un capriccio.
Secondo l’ISTAT, i prezzi della ristorazione sono aumentati di circa il 20% in cinque anni. Ma la vera inflazione non è nei conti dei ristoranti: è nei rapporti umani. Non ci chiediamo più “hai voglia di uscire?”, ma “ce lo possiamo permettere?”. E ogni volta che la risposta è “meglio di no”, un piccolo pezzo di vita si spegne. Restiamo a casa non per mancanza di amici, ma per paura di non arrivare a fine mese. È una forma di solitudine economica, una povertà relazionale che non si vede, ma che pesa addosso come un cappotto d’inverno.
La pandemia aveva reso il restare a casa un dovere civico. L’inflazione l’ha trasformato in un’abitudine. Eppure, la sensazione è la stessa: la vita scorre fuori, e noi la guardiamo da dietro un vetro, come spettatori che non possono permettersi il biglietto d’ingresso. Ma uscire non significa solo spendere: significa esserci, condividere, sentirsi parte di un mondo che vive. È la libertà di dire “andiamo” senza fare i conti prima. E quando anche quella libertà viene meno, non si tratta più solo di economia, ma di identità.
Certo, molti rispondono che “per vedersi non serve spendere”. È vero, ma è anche una semplificazione comoda. Perché non tutti hanno una casa grande o accogliente da aprire, né l’energia per cucinare dopo una giornata di lavoro, né la serenità per dire “venite da me” quando si fatica a pagare l’affitto. La povertà, anche quando è temporanea, sa essere umiliante: ti fa sentire inadeguato, ti convince che il tuo spazio, il tuo tempo, la tua presenza non bastino più.
E così, mentre i locali restano pieni — perché qualcuno che può sempre c’è — un’altra parte della popolazione si ritira silenziosa, invisibile. È un pieno che non racconta la verità, ma la maschera. La distanza cresce: non più tra ricchi e poveri, ma tra chi può permettersi di vivere e chi può solo sopravvivere.
E allora forse è il momento di rimettere tutto in discussione. Perché sì, vivere costa, ma vivere insieme non dovrebbe. Siamo cresciuti sui muretti, nelle piazze, nei parchi, in panchine scomode dove nascevano amicizie e amori. Quei luoghi erano gratuiti, aperti, democratici. Oggi sembrano quasi scomparsi, divorati da dehors, parcheggi e centri commerciali. Ma la verità è che dovremmo riprenderceli. Ricordarci che la socialità non si compra: si coltiva.
Non servono sempre cocktail e menù degustazione per stare insieme. Servono spazi, tempi, la volontà di esserci davvero. Se le città non ci offrono più luoghi per incontrarci senza pagare un biglietto d’ingresso, allora dobbiamo crearli noi. Ritagliarceli tra una panchina, una scalinata, una terrazza, un cortile. Riempirli di presenza, di parole, di vita vera.
Perché sì, la crisi ci ha tolto tanto, ma non può toglierci il desiderio di comunità. Forse dobbiamo imparare di nuovo l’arte dell’essere insieme con poco, che è poi la più grande forma di ricchezza che abbiamo dimenticato. La leggerezza di condividere un tempo senza consumarlo.
In fondo, non si tratta solo di nostalgia, ma di resistenza. Sì, è un gesto di resistenza in un’epoca che ci spinge alla prudenza, al risparmio, alla rinuncia. È come dire: “Io ci sono ancora, anche se costa”. Difendere la socialità dal mercato, restituirla alle persone. Perché, paradossalmente, più cerchiamo di risparmiare, più ci impoveriamo: in fondo, la vera ricchezza non è il conto in banca, ma il numero di volte in cui ci siamo sentiti vivi. E quella vitalità, oggi, sembra un privilegio. La verità è che nessuna inflazione potrà mai compensare la mancanza di calore umano. E allora forse il gesto più rivoluzionario che possiamo fare oggi è uscire. Anche solo per un caffè. Anche solo per ricordarci che il mondo là fuori, nonostante tutto, ci sta ancora aspettando. Uscire non per spendere, ma per respirare. Perché il mondo non è un locale dove si paga l’ingresso: è una piazza che esiste solo se decidiamo di abitarla.
E allora, sì, noi intanto continuiamo a vivere. A inventarci spazi, a difendere i nostri muretti, a ritagliare momenti di libertà dove possiamo. Ma non può bastare. Perché non è giusto che uscire a bere un aperitivo, mangiare una pizza o ascoltare musica dal vivo sia diventato un privilegio. La socialità non dovrebbe essere un lusso, ma un diritto quotidiano.
Sconfiggere la povertà non è un atto di carità, è un atto di giustizia – Nelson Mandela
Serve un’economia che torni a essere democratica, che restituisca respiro e accesso alla vita comune. Interventi concreti, mirati, che ridiano valore al lavoro e tempo alle persone, non solo numeri al PIL. Perché la libertà di stare insieme — di vivere, non solo di sopravvivere — non può restare appesa al prezzo di un cocktail.
Per rimanere aggiornato sulle ultime opinioni, seguici su: il nostro sito, Instagram, Facebook e LinkedIn
Un laboratorio di educazione musicale dedicato ai valori della tradizione italiana. Nel cuore del quartiere…
In questi mesi la figlia minore di Vittorio Sgarbi, Evelina Sgarbi, ospite in vari programmi…
Pamela Genini, ventinove anni, è stata brutalmente uccisa da Gianluca Soncin, cinquantadue anni, ossia l’uomo…
Superare la povertà non è un gesto di carità. È un atto di giustizia. È…
Il 16 ottobre 1923, in un modesto ufficio di Los Angeles, due fratelli tracciano senza…
Benvenuti a tutti ad un nuovo appuntamento di Senti Chi Parla, la rubrica dedicata al doppiaggio…