La televisione del dolore è sempre più diffusa, anzi, ormai è diventata (quasi) la normalità. Nei salotti del piccolo schermo si discute quotidianamente degli eventi tragici e delle vicende umane più dolorose, scavando a fondo a caccia di uno scoop o di un dettaglio che agli altri era finora sfuggito; i giornalisti, grazie al loro lavoro certosino, sono sempre più spesso validi alleati degli inquirenti nella risoluzione dei casi. Ma si tratta di un fenomeno che merita una riflessione critica per la complessa interazione tra diritto di cronaca, etica professionale e responsabilità sociale. Sebbene la libertà di informazione sia un pilastro fondamentale delle società democratiche, il modo in cui viene esercitata deve essere oggetto di un’analisi più profonda, specie quando si tratta di vicende tragiche che coinvolgono la sofferenza umana.
In altre parole, qual è il limite che non si dovrebbe superare?
Per quanto numerosi colleghi svolgano al meglio il loro ruolo, in tante occasioni, il giornalismo sembra varcare i confini del pudore. Vengono esposti al pubblico dettagli intimi del dolore e del lutto, senza alcun riguardo per la dignità delle vittime o dei loro familiari. Chiedere a una madre, che ha appena perso un figlio ucciso brutalmente, “come si sente” è un esempio paradigmatico di questa deriva. È una domanda retorica, una ferita che si riapre senza motivo, se non quello di appagare la curiosità morbosa di un pubblico che, sempre più spesso, sembra desiderare il crudo spettacolo della sofferenza. Qui, il giornalismo non solo tradisce la sua missione di informare, ma rischia di diventare strumento di voyeurismo, intrattenimento mascherato da cronaca.
Il termine “voyeurismo” è particolarmente calzante. Come sottolineato dal teorico della comunicazione Clay Calvert nel suo saggio Voyeur Nation, il pubblico utilizza i media per soddisfare bisogni psicologici e sociali. La visione di un dolore altrui diventa forse un modo per placare la nostra sete di verità e giustizia, una finestra attraverso cui osserviamo la realtà che altrimenti ci sarebbe preclusa. Il problema è che questa “ricerca della verità” viene spesso confusa con una brutale esposizione della sofferenza. Si dimentica che la vita umana non è uno spettacolo da consumare, ma una realtà che merita rispetto e comprensione.
Il confine tra cronaca e voyeurismo, così, è sempre più labile, e in un mondo mediatico dove il sensazionalismo vince sull’approfondimento, forse è giunto il momento di ripensare seriamente il giornalismo contemporaneo. Bisogna porci domande su cosa significhi realmente “informare” e quali siano i limiti che non devono essere oltrepassati. La spettacolarizzazione del dolore, insomma, non può e non deve diventare una pratica normale, con la consapevolezza che il diritto di cronaca non è un lasciapassare per qualsiasi cosa.
Il voyeurismo mediatico si riferisce al consumo d’immagini rivelatrici o d’informazioni riguardanti le vite di altre persone, apparentemente reali e non sottratte allo sguardo altrui, spesso non sempre per scopi d’intrattenimento ma alle spese dell’intimità e del discorso articolato, attraverso mass media ed Internet – Clay Calvert
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