Cultura e Spettacolo

Opera lirica, tra stereotipi elitari e kermesse mondane: quando l’eterna arte è molto più di un vestito luccicante e antiquato

Ogni anno, nel giorno di Sant’Ambrogio, a Milano si ripete l’evento mondano fintamente travestito da momento di celebrazione della cultura alta, il Festival di Sanremo della (presunta) intellighenzia nostrana: l’inaugurazione della stagione dell’opera lirica del Teatro alla Scala. 

La musica è finita in una torre d’avorio, puro piacere estetico per pochi eletti. Mentre invece dovrebbe essere prima di tutto educazione alla vita. – Daniel Barenboim

L’appuntamento prevede una pomposa sfilata, talvolta grottesca, quasi sempre priva di buon gusto, di dame ingioiellate, imbellettate e chiuse in impalcature di abiti goffamente ricercati, se paillettati ancora meglio, e cavalieri in frac. Insomma, una sorta di cosplay di un ballo alla corte di Vienna, ma con meno noblesse e più capitale in banca. Una buona parte degli astanti –  e ci si potrebbe chiedere quanti vi partecipino per autentica devozione verso questa forma d’arte, e per quanti, invece, sia mero sfoggio di status symbol – condividono due caratteristiche fondamentali: una certa ricchezza e un’età più che matura.

Non è, dunque, strano che l’opera lirica ne esca con le ossa rotte: siffatte immagini contribuiscono a rinforzare una vulgata tacitamente invalsa da tempo, un falso mito che vuole relegare la lirica a una dimensione rigorosamente elitaria, polverosa, antica e “da vecchi”. 

Le origini della lirica: dalla corte al popolo

Risalendo agli albori dell’opera, se ne rintraccia certamente un’origine “nobile”. Alla fine del XVI secolo, un circolo di poeti, musicisti e letterati fiorentini, sotto l’egida del conte Giovanni de’ Bardi, tentò un esperimento musicale che riportasse in vita lo spirito del teatro greco, nel quale parola poetica, canto, danza e azione scenica si mescolavano. L’obiettivo era creare una nuova forma di musica che combinasse canto e recitazione, e che affidasse alla monodia di un solista il compito di veicolare emozioni in modo diretto: nacque così il melodramma. 

I luoghi di fruizione della neonata lirica erano squisitamente aristocratici. Corti e palazzi nobiliari ospitavano le rappresentazioni a beneficio di un ristretto pubblico d’élite, desideroso di intrattenimento anche in eventi celebrativi, come testimonia l’Euridice di Jacopo Peri, composta e portata in scena a Palazzo Pitti nel 1600 in occasione delle nozze di Maria de’ Medici con Enrico IV di Francia. 

Nel giro di pochi decenni, l’opera lirica dismise il proprio abito nobile, per trasformarsi in fenomeno più “popolare”, benché non ancora per tutti. Era il 1637 quando a Venezia nel Teatro San Cassiano venne portata in scena l’Andromeda, la prima opera aperta a un pubblico ampio, in grado di sostenere il costo del biglietto.

L’evento segnò una duplice rivoluzione: non solo si era operata una vera e propria transizione in termini di spazi e numero di fruitori, ma ciò aveva comportato anche un cambiamento nel modo di concepire l’opera lirica e di plasmarne forme e contenuti. Nelle prime fasi, infatti, l’opera fungeva quasi da contorno d’intrattenimento in contesti cortigiani, in cui il pubblico era interessato più al prestigio sociale che allo spettacolo in sé. Con l’apertura di teatri pubblici, invece, divenne cruciale per musicisti e librettisti comporre opere capaci di coinvolgere un uditorio pagante variegato ed esigente.

Una roba vecchia per vecchi?

Una seconda colpa che l’immaginario comune imputa all’opera è quella di essere una sorta di reperto storico attraente e attrattivo solo per persone attempate, un passatempo scollegato dalla sensibilità moderna e incapace di dialogare con il presente.

Ma come può essere considerata imbalsamata un’arte che indaga l’animo umano nei suoi drammi più intimi, nei suoi crucci più virulenti, nelle passioni più meschine e negli slanci più gloriosi verso la grandezza? Le trame dell’opera, fatte delle mutevoli e multiformi sfumature dell’amore – dalla passione travolgente alla gelosia distruttiva – del desiderio di potere, di vendetta, del sacrificio e del conflitto tra individuo e società, disegnano un mosaico di temi universali che interessano l’essere umano di ieri e di oggi senza distinzione alcuna.

Personaggi come Violetta Valéry de La Traviata, che sfida le convenzioni sociali per amore, o Carmen, simbolo di emancipazione e autodeterminazione, fungono da archetipi che continuano a interrogare la nostra società su questioni di moralità e libertà personale. Questi drammi umani, pur ambientati in epoche passate, riflettono dilemmi e sentimenti eterni, nei quali ciascuno può leggere qualcosa di sé, giovani inclusi. Insomma, l’opera lirica sarà sempre attuale e parlerà a tutti fintanto che esisterà l’essere umano!

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Tonia Di Fabrizio

Classe 1997, abruzzese di nascita e bolognese d'adozione. La passione viscerale per il greco e il latino l’ha portata a conseguire una laurea in "Filologia, Letteratura e Tradizione Classica". Eclettica ascoltatrice di musica, avida divoratrice di serie tv, balla il tango (non benissimo), pratica yoga per sentirsi radicata e legge libri per vivere mille vite. Scrive di ciò che la affascina e incuriosisce, nella speranza che anche i lettori possano esserne ammaliati a loro volta

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