Sono trascorsi quasi dieci giorni dalla Giornata Internazionale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia, ricorrenza celebrata annualmente il 17 maggio non solo per rammentare quanto la discriminazione basata sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere sia ancora una realtà drammatica in svariate parti del mondo, ma anche (e soprattutto) con la speranza che il vivo ricordo possa fungere da motore per un cambiamento che, da troppo tempo ormai, tarda ad arrivare. In oltre 60 Paesi, infatti, l’omosessualità è tuttora criminalizzata e in alcuni di essi può addirittura condurre alla pena capitale.
Uno scenario che, all’apparenza, sembra dunque irreversibile e dinanzi al quale tornano potenti alla mente le storie, sempre molto attuali purtroppo, di coloro che in passato hanno pagato a caro prezzo la libertà di essere semplicemente se stessi. Uno di questi, per chi non ne fosse a conoscenza, è stato senza ombra di dubbio Oscar Wilde.
L’amore che non osa dire il suo nome – Oscar Wilde, dal processo del 1895 in riferimento al suo rapporto con Lord Alfred Douglas
Nato nel 1854 a Dublino, educato a Oxford e immerso nella cultura classica, in tanti ricordano Wilde per essere stato un esponente del decadentismo e dell’estetismo britannico, un abilissimo drammaturgo, un giornalista, un saggista, un critico letterario dell’età vittoriana e un’icona, per usare termini più odierni, della raffinatezza intellettuale. Quello che i più tendono a dimenticare, però, è che la sua brillantezza letteraria venne presto messa in ombra e svilita a causa dell’autenticità con cui egli scelse di vivere la propria vita. La mondanità era certamente uno degli aspetti principali della sua sfera personale, ma fu una relazione in particolare, quella che intrattenne con Lord Alfred Douglas, a condurlo sulla via del declino e a spingere quella società che fino a poco tempo prima lo aveva idolatrato a condannarlo.
Arrestato il 6 aprile 1895 con l’accusa di “gross public indecency” (atti osceni in luogo pubblico) per via del suo rapporto omosessuale con Douglas, inconcepibile per l’epoca, in seguito ad un processo, il 25 maggio Wilde fu condannato a due anni di lavori forzati, pena che scontò a partire dal giorno seguente, il 26 maggio, in diverse prigioni britanniche fino alla liberazione, avvenuta il 19 maggio 1897. Inutile ribadire che la questione, che ebbe una notevole risonanza “mediatica” e pubblica, ebbe delle ripercussioni sulla sua carriera, tanto da lasciarlo incapace di continuare a scrivere per molti anni e sempre a corto di denaro.
Per quanto non si possa negare che la vicenda di Wilde sia strettamente legata alla concezione che nell’800 si aveva dell’omosessualità, lo è altrettanto il fatto che egli venne punito non per ciò che scrisse, ma per ciò che era. Per questo, ripercorrere la sua storia non significa soltanto onorare la sua indubbia grandezza letteraria, ma ribadire quanto il pregiudizio, ieri come oggi, alla luce di ciò che ancora si verifica in ogni parte del mondo, possa distruggere delle vite.
Ai nostri occhi, comunque, Oscar Wilde resta certamente una delle figure più affascinanti, contraddittorie e tragiche del panorama letterario moderno. Spirito libero, talento straordinario, dandy per vocazione, e chissà, magari anche un po’ per provocazione, chi meglio di lui (e suo malgrado!) è stato in grado di incarnare l’urto tra l’estro individuale e quelle convenzioni di una collettività che, più di un secolo dopo, non si possono ancora ritenere superate? Probabilmente in pochi!
Autore di romanzi, poesie, saggi e pièce teatrali, inoltre, egli viene spesso e volentieri ricordato per Il ritratto di Dorian Gray (1890). Il che non è un caso, dal momento che si tratta di un’opera che, già all’epoca, destò scandalo per i suoi sottintesi omoerotici e per l’esaltazione della bellezza giovanile e dell’edonismo. Grazie alla finezza della sua penna, in effetti, è difficile non percepire il suo tormento. Wilde visse eternamente conteso tra apparenza e sostanza, desiderio e rovina, in un contesto dove il piacere non era mai disgiunto dalla colpa.
Una realtà difficile la sua, in cui il moralismo e il pregiudizio viaggiavano di pari passo. Una contraddizione, quest’ultima, che egli smascherò facilmente all’interno di quelle drammaturgie che fecero la sua fortuna: sono difatti L’importanza di chiamarsi Ernesto, Un marito ideale e Il ventaglio di Lady Windermere, per citarne alcune, a smontare le ipocrisie della contemporaneità del loro autore, grazie soprattutto a dialoghi fulminanti e ad una satira che non ha perso smalto.
Eppure, ad un certo punto accadde qualcosa che cambiò, seppur temporaneamente, la percezione che si aveva di Wilde, tant’è che diventa necessario, se non addirittura imperativo, parlare in maniera più approfondita della relazione che ebbe con Douglas, detto “Bosie”. Giovane aristocratico, impulsivo, seducente e, in molti casi, emotivamente instabile, instaurò con l’autore di origini irlandesi una relazione tumultuosa, fatta di passioni intense, liti, gelosie e perfino dipendenze. Fu Bosie, infatti, ad introdurlo ad un mondo di piaceri clandestini che, se da un lato alimentarono la verve più trasgressiva e libero del suo pensiero, dall’altro lo intrappolarono in una spirale autodistruttiva.
Per di più, fu proprio il padre di Bosie, il Marchese di Queensberry, noto per aver codificato le regole moderne della boxe, a denunciare Wilde pubblicamente come “sodomita”. A quel punto Wilde, spronato da Douglas stesso, rispose citandolo per diffamazione, ma il processo si rivoltò contro di lui. Andò incontro ad una condanna per atti osceni e a due anni di prigionia: un castigo fisico e morale che lo spezzò definitivamente. Uscito dal carcere, abbandonato dalla società e quasi in esilio, si rifugiò in Francia, dove morì nel 1900 in solitudine e povertà.
Tuttavia, fu proprio nel continente che vide la luce una delle sue opere più suggestive e controverse: Salomé. Scritto in francese nel 1891, il dramma mette in scena il celebre episodio biblico della danza dei sette veli e della decapitazione di Giovanni Battista. Ma Wilde ne fa qualcosa di molto più inquietante e sensuale: una parabola sul potere distruttivo del desiderio, sull’erotismo che si consuma nel sangue e sulla bellezza che diventa ossessione. Aspetti che, se analizzati alla luce della sua storia personale, assumono un significato ancora più potente. Per non parlare delle allusioni all’ambiguità sessuale e al piacere proibito che la resero una delle opere più censurate del suo tempo.
Salomé, il personaggio centrale, non è una giovane capricciosa, bensì l’incarnazione del desiderio che reclama ciò che non può avere. Il suo amore morboso per Iokanaan (Giovanni Battista), che la respinge, la porta a chiederne la testa. Ed è in questo gesto estremo che Wilde raffigura il punto di non ritorno tra passione e morte. È un testo fortemente simbolista, dal linguaggio ricco e visionario, che affascinò persino Richard Strauss, il quale ne trasse l’opera omonima nel 1905.
Ora, la parabola esistenziale di Wilde ci appare in tutta la sua ingiustizia. Un uomo brillante, condannato non per aver fatto del male a qualcuno, ma per semplicemente per aver amato un altro uomo. Visse e scrisse come se il mondo fosse già pronto a comprenderlo, ma si ritrovò sepolto da un’epoca che, in realtà, non lo era.
La magra consolazione, perlomeno per noi, è che, in questo senso, fu davvero una persona “all’avanguardia”: non unicamente per la scrittura, ma per il modo in cui scelse di vivere la propria identità, la medesima identità che divenne l’arma con cui annientarlo pubblicamente. Un risvolto che, a pensarci bene, non è poi così distante da ciò che accade tutt’oggi e in merito al quale dovremmo domandarci: e noi, invece, siamo disposti ad accettare chi “rompe le regole” per rimanere fedele a se stesso?
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