Nelle scorse settimane ci siamo occupati di come dar vita a racconti brevi o a pagine di diario della maniera più opportuna. Come già ripetuto in più di un’occasione, benché siate degli ottimi scrittori, l’essere brevi non è di certo alla portata di chiunque. O perlomeno, dar vita a piccole pagine di storie che siano, oltre che scritte bene, anche avvincenti e coinvolgenti potrebbe richiedere qualcosa in più della vostra naturale propensione ad imprimere ciò che avete dentro nero su bianco. Perciò, per l’appuntamento di oggi ho deciso di lasciarvi un altro esempio, nella speranza che possa esservi di aiuto e guida, e perché, che magari vi faccia viaggiare anche un po’ tra le fantasie di un uomo incredibimente devoto alla sua penna.
Buona lettura!
La donna camminava per la strada che costeggiava il lungo muro dell’aeroporto. Si chiamava ancora così la base delle astronavi, anche se ormai da un bel pezzo gli aerei non ci atterravano più. Ora c’erano quegli enormi e goffi veicoli che neanche lontanamente ricordavano le belle e proporzionate linee dei vecchi aeroplani. Non che lei li avesse mai visti dal vero, però nei corridoi dell’aeroporto stavano appese delle immagini che li ritraevano.
Si diceva che facessero un rumore enorme quando partivano e che ogni tanto qualcuno cadesse fuori dalle piste di atterraggio.
Questi no, non facevano proprio rumore, con molta discrezione sibilavano per un momento e poi sparivano. La loro piattaforma di cemento rimaneva vuota, con i tubi a penzolare dai bassi tralicci di metallo.
Sarebbe rimasta vuota per tutta la durata del viaggio, finché un giorno la nave sarebbe ricomparsa, bella e lucida come quando era partita.
Era capitato una volta che una nave non ritornasse nel posto giusto. Che confusione allora nell’aeroporto. Tutti che correvano, sirene che suonavano, veicoli che si precipitavano verso di essa che se ne stava adagiata di traverso in mezzo ad un prato lì vicino, mezza ricomparsa e mezza no.
Avevano licenziato il comandante.
Ma ormai non capitava più. I viaggi verso le stelle erano sicuri, diceva la pubblicità della Compagnia.
La donna voltò l’angolo della strada. Foglie secche e cartacce si ammucchiavano ad ostruire i tombini, e il vento freddo dell’inverno inoltrato le seccava le mani e faceva lacrimare gli occhi. Stava tornando a casa dopo il suo turno di lavoro alla mensa dell’aeroporto. Perché anche i piloti mangiavano, e non certo pillole di cibo, come credevano gli antichi.
Durante la sua giornata di lavoro, mentre lavava le verdure, vedeva, dalla finestra delle cucine, gli enormi veicoli apparire e sparire senza rumore. Dopo un po’ diventava noioso e lei si chiedeva che cosa ci fosse di bello nel pilotare quei cosi.
Ma non lo chiedeva a suo figlio, a lui piaceva, e ogni volta che ritornava dai suoi viaggi le raccontava di posti favolosi.
Se lo ricordava quando da bambino lo portava con se’, per non lasciarlo solo in casa, e lo vedeva tutto il giorno sfogliare i depliant della Compagnia, con immagini di altri mondi, cieli dal colore strano e animali dall’aspetto inquietante, che forse erano persone.
E poi era entrato nella scuola per piloti ed era risultato primo nel suo corso. E se n’era andato.
Lo vedeva una volta ogni tanti anni, ed era sempre bello e giovane nella sua elegante uniforme, mentre lei sentiva sempre di più gli acciacchi dell’età. Le avevano detto che a causa della legge di un certo Einstein, per suo figlio sarebbero passate poche settimane ad ogni viaggio, mentre per lei e per quelli rimasti a terra sarebbero stati anni interi.
Secondo lei non era una buona legge, ma i governanti fanno quello che gli pare, e forse serviva loro per tenersi più a lungo dei bravi piloti e quindi spendere di meno per addestrarne altri. Ma lei avrebbe voluto conoscerlo quel tipo per dirgliene quattro. Suo figlio avrebbe voluto portarla con sé qualche volta perché il regolamento permetteva ai piloti di farsi accompagnare da famigliari, proprio per evitare che al ritorno da viaggi molto lunghi non trovassero più nessuno. Ma la legge richiedeva troppe autorizzazioni a causa dei problemi che avrebbe creato sulla Terra l’assenza per tanto tempo dei singoli individui.
Perciò lei non era mai andata con lui, e poi non aveva voglia di abbandonare la sua casa per tutto quel tempo, i ladri mica partivano e al ritorno avrebbe trovato solo i muri, e forse neanche quelli se qualche altro scemo di pilota avesse sbagliato a calcolare il punto di ricomparsa.
Chi partiva su quelle navi era gente che non ritornava più, emigranti che lasciavano la Terra in cerca di fortuna su altre stelle, oppure mercanti che non avevano casa ne’ parenti e trascorrevano la loro vita negli alberghi degli aeroporti.
Fosse stato anche suo figlio così.
Se fosse andato su un’altra stella, per restarci, come facevano quasi tutti i suoi passeggeri, avrebbe ricevuto le sue lettere, avrebbe visto le immagini dei suoi nipotini che crescevano, e forse un giorno avrebbe potuto raggiungerli. Ma così invece…
Non poteva sopportare il suo sguardo imbarazzato quando tornava e la ritrovava sempre più vecchia. Per lui era passato tanto poco, mentre lei aveva fatto un figlio per vederlo si e no dieci volte. “No, non dovevo proprio farlo studiare, così adesso avrebbe una moglie e dei figli, e la sera tornerebbe a casa”, pensava.
Le piattaforme di cemento ricoprivano la spianata, e biancheggiavano allineate sotto la luce della luna.
Sembrava un enorme cimitero, come quelli delle guerre dei secoli passati. E in fondo cos’altro era se la gente che partiva da lì non ritornava più? Le stelle brillavano nel cielo pulito, un vento gelato passava sull’erba e asciugava la rugiada, che altrimenti al mattino sarebbe stata brina. Oltre il muro, con un sibilo, un’altra nave sparì verso chissà quali stelle.
La donna si strinse nel cappotto e proseguì per la strada di casa.
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