L’incontro faccia a faccia tra il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky e il Presidente americano Donald Trump, svoltosi a San Pietro in occasione del funerale di Papa Francesco, può forse essere interpretato come un simbolico ritratto dei Romani che si spartiscono l’eredità, simile alla scena biblica del mantello di Gesù? Una volta, più precisamente lo scorso anno, l’ormai defunto Pontefice, all’Arena di Verona, disse:
La pace è nelle mani dei popoli, non dei leader
Ma sarà veramente così? Nel caso in oggetto, i “leader” nel caso sono Trump e Zelensky, e il loro “casinò” – ovviamente si usa il lemma moderno come un’iperbole – è, volenti o nolenti, niente di meno che la Basilica di San Pietro.
In questo contesto paradossale, la funzione funebre di un papa che inneggiava alla pace e supplicava i potenti della Terra a de-militarizzare i loro eserciti, non è solo un momento di commemorazione, diventa un palcoscenico politico dove si intrecciano spiritualità, geopolitica e opportunismo cinico.
La scelta di San Pietro per intavolare un dialogo, carica di significato storico e simbolico, amplifica l’importanza dell’evento. Proprio come quei soldati romani, che si contendevano il mantello di Cristo, i due, Zelensky e Trump – con loro i rispettivi popoli rappresentati -, fanno emergere due visioni opposte riguardo a potere, sovranità e giustizia internazionale.
I soldati poi, quando ebbero crocefisso Gesù presero le sue vesti, ne fecero quattro parti — una per ciascun soldato — e la tunica. Ma quella tunica era senza cucitura, tessuta tutta d’un pezzo da cima in fondo. Perciò dissero tra loro: ‘Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca’. Così si compiva la Scrittura, che dice: ‘Si sono divisi tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte’ – Giovanni
L’incontro, si dirà per i titoli di cronaca – è un tentativo di entrambi i leader di affermare la propria posizione nel panorama geopolitico attuale. Zelenski, simbolo della resistenza ucraina, cerca supporto nella sua lotta contro l’aggressione; Trump, di nuovo presidente, si propone di riaffermare la propria capacità di trovare un “deal“.
In questo mondo giornalistico-centrico (per i più dotti “infosfera”), da spettatore spesso distratto, sono inciampato in un fotogramma che cattura non solo l’essenza dell’incontro, ma anche la complessità delle emozioni e delle dinamiche in gioco. Confesso che sto ancora imparando ad inciampare, a cogliere l’importanza di ogni dettaglio e a comprendere il significato profondo di tali eventi.
Questa dinamica, questo fatto, richiama alla mia memoria non solo l’immagine dei Romani che si spartiscono il mantello, ma anche la continua lotta per il potere e l’influenza.
In un mondo dove gli interessi nazionali spesso prevalgono su quelli umanitari, dove viene stracciato il diritto internazionale (o ce ne si fa beffe), l’incontro in San Pietro, diventa una rappresentazione potente delle sfide attuali e della caratura (l’assonanza con ‘caricatura’ è del tutto casuale) dei “protagonisti” del nostro tempo.
Dai selfi al corpo appartenuto a papa Francesco arrivando ai politici presenzianti, si può cogliere l’opportunità per mettere a valore i propri interessi contingenti. Qui e ora non si tratta di intelligenze artificiali, è tutto molto (tristemente) umano.
Oltre a Trump e Zelensky, a San Pietro c’è qualcuno che porta le sedie, le sistema, le mette e le toglie. Cerca di favorire qualcosa. Che si materializzi qualcosa di necessario, di urgente, il dialogo, prima che inizi il funerale. Dal mio punto di vista, l’autentica e più importante pietra d’inciampo è proprio questa.
Le sedie portate e disposta diligentemente all’interno della Basilica durante il funerale di Papa Francesco per far accomodare i due “leader” – in piedi non si ragiona abbastanza bene e ci si stanca a quanto pare – è un gesto profondo, quasi religioso.
Non si tratta solo di oggetti utili, ma di un simbolo di accoglienza e di dialogo. Come nella musica, un DO Minore, un’armonica inferiore di quel trono (divino) che ogni “leader” crede di avere perché più intelligente, perché più capace di altri o perché “eletto” dal proprio popolo – il DO Maggiore.
In un momento in cui il mondo politico sembra essere caratterizzato da leader incapaci di confrontarsi nei propri uffici, queste sedie valgono oro, e offrono un’opportunità unica, si dirà. L’atto di fornire una seduta ad un leader, in un contesto così carico di significato spirituale e storico, diventa un gesto di umanità e di servizio. È un invito a sedersi, a riflettere e a dialogare.
C’è chi dà le carte e chi non le ha da giocare. L’offerta di una sedia può anche esser vista come un atto provocatorio ma docile, che promuove l’ascolto e la comprensione reciproca.
Queste due sedie, quindi, non sono semplici elementi di arredo, rappresentano la necessità di creare spazi estremi di confronto in un mondo sempre più polarizzato. Richiamano l’attenzione su quanto sia importante avere luoghi e momenti dedicati al dialogo, soprattutto per chi ha il potere di influenzare il futuro di molti. Anche al funerale del sommo pontefice, se necessario!
In definitiva, il gesto di portare sedie nella Basilica è un richiamo a un servizio autentico, un invito a tutti i leader a prendersi il tempo per confrontarsi e ascoltare, possibilmente al riparo dalle cineprese e dagli smartphone (possibilmente)!
Questo atto semplice mi ricorda che la vera leadership è quella che sa creare occasioni per il dialogo e l’incontro. In altri tempi avremmo usato la parola “diplomazia”, ma a quanto pare, il “leader importanti” credono di avere maggiori competenze dei diplomatici, quel qualcosa in più che li ha fatti arrivare al successo, il tutto ricamato da una legittimazione popolare, persino “democratica”.
È la Chiesa, attraverso il suo gesto di accoglienza, ad offrire l’altra guancia. Durante il funerale di Papa Francesco, la Basilica è diventata non solo un luogo di commemorazione, ma una casa per il dialogo. Questo gesto di apertura è un contrasto netto rispetto a un clima bellicista che spesso prevale nei discorsi politici, nel riarmo, nel “quanti punti di PIL dedicare all’industria della armi”.
La Chiesa di Francesco, custode di valori di pace e riconciliazione, espone la sua volontà di essere un luogo in cui le differenze possano essere messe da parte, due sedie del tutto simili. L’offerta di accoglienza è la vera “pietra d’inciampo”. È un invito ai leader che, incapaci di dialogare nei propri uffici, trovano in questo spazio sacro l’opportunità di confrontarsi e riflettere. Quante volte papa Francesco si è appellato ai leader del mondo per suscitare questo gesto di umiltà?
In questo contesto, l’atto di porgere l’altra guancia diventa un simbolo potente di resistenza e speranza. La Chiesa si fa promotrice di un dialogo autentico, opponendosi a un mondo che tende a chiudersi in posizioni belliciste.
In definitiva, la Chiesa ci ricorda che il vero coraggio è “Comunicare”.
Offrire l’altra guancia significa non solo accettare il confronto, ma anche creare spazi in cui le parole possano fluire liberamente, promuovendo la comprensione reciproca e la pace.
Il mio dubbio forse è comune a molte persone che si trovavano a Roma nello scorso week-end. E se questi “Due Romani” moderni, si fossero recati a Roma solo per continuare il (loro) gioco d’azzardo?
Come si può curare una eventuale ludopatia di quella portata?
La linea del fronte, ci ricorda il presidente della Federazione russa, copre un’estensione di circa duemila chilometri. Detto in altre parole, ci sono centinaia di migliaia di soldati che stanno dando un senso alla loro vita perché c’è un nemico da combattere. E chi l’ha creato quel nemico? Chi ha fatto credere loro che Ucraini e Russi sono popoli nemici? Dov’è la responsabilità dei leader in quei duemila chilometri?
La mia impressione, e spero di sbagliarmi, è che il miracolo di un dialogo che sarebbe avvenuto a San Pietro nell’immediatezza del funerale del pontefice, non si sia mai compiuto: piuttosto, ciò a cui abbiamo assistito è che si sono accesi i riflettori su “Due Romani”, intenti a giocare per “vincere”.
Nell’antica Roma, il gioco dei dadi, conosciuto come tesserae, era un passatempo molto popolare. Questi dadi erano realizzati in vari materiali, tra cui avorio, osso, bronzo e ambra, e presentavano sui loro sei lati i numeri, proprio come i dadi moderni.
Il lancio dei dadi avveniva generalmente utilizzando un dispositivo chiamato fritilus, un contenitore cilindrico che permetteva di mescolare i dadi prima di lanciarli. Il gioco più comune consisteva nel conteggio dei punti ottenuti, creando così un’atmosfera di competizione e fortuna.
Questi giochi di dadi non erano solo forme di intrattenimento, ma anche momenti di socializzazione e strategia, riflettendo la cultura ludica e le dinamiche sociali dell’epoca romana.
La loro popolarità dimostra quanto fosse importante il gioco come mezzo di interazione tra le persone, un aspetto che continua a persistere nella nostra società moderna.
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