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Dorothy Eady, una vita sola non basta: una sacerdotessa di Iside nell’Inghilterra del Novecento

Immaginate di portare vostra figlia di quattro anni in un museo e che lei all’improvviso, gridando: «Lasciatemi stare, questa è la mia gente!», si getti a terra per baciare i piedi delle statue dell’antico Egitto: sarebbe senz’altro un episodio bizzarro. Tuttavia, è proprio ciò che accadde a una famiglia inglese in visita al British Museum nel 1908. In questo modo ebbe inizio la straordinaria vita di Dorothy Eady, tra ricordi di un’esistenza precedente e amore per l’Egitto.

Un’infanzia particolare

A dir la verità, le stranezze in casa Eady – questo il nome della famiglia – iniziarono nel 1907: la piccola Dorothy cadde dalle scale e venne dichiarata morta dal medico che l’aveva visitata, ma, al suo ritorno, lei era sveglia intenta a mangiare cioccolata. A partire da quel traumatico evento, la vita notturna della bambina prese a popolarsi di visioni oniriche relative a edifici dall’estetica ben diversa rispetto a quella dell’Inghilterra del tempo, con grandi colonne e giardini con vasche d’acqua.

Nel cuore di Dorothy col passare degli anni si accese una vera e propria ossessione verso l’antico Egitto, tanto che, nelle sue frequentissime visite al museo londinese, conobbe il curatore del Dipartimento delle Antichità Egizie e Assire, nonché eminente egittologo, Ernest Alfred Wallis Budge, il quale la incoraggiò a studiare i geroglifici, divenendo suo maestro. L’approccio al sistema di scrittura egizio, stando a quanto affermava la ragazzina, più che un apprendimento vero e proprio, assumeva i contorni di un riaffioramento nella memoria di una lingua già nota e praticata.

Il trasferimento in Egitto

Nel 1933, dopo anni trascorsi a studiare la storia egiziana, Dorothy, ormai adulta, riuscì ad accorciare, almeno spazialmente, le distanze che la separavano da quelle terre e da quel popolo che sentiva inspiegabilmente legato alla sua esistenza, trasferendosi al Cairo dopo il matrimonio con Iman Abdel Meguid, un giovane egiziano conosciuto a Londra. Dalla breve unione con l’uomo, che si risolse in un divorzio, nacque un bambino, Sety. La scelta del nome non fu casuale: Seti I era stato faraone nel XIII secolo a. C. e, soprattutto, protagonista di un sogno di Dorothy, all’epoca quindicenne.

La vita precedente e l’amore col faraone Seti I

Tale apparizione fu, però, solo un primo tassello del grande mosaico delle vite intrecciate di Dorothy e dell’antico faraone. Infatti, una volta nella terra delle piramidi, i sogni della donna rivelarono le tappe della sua vita passata: il suo nome era Bentreshyt, giovane sacerdotessa di Iside nel tempio di Seti I ad Abido (una delle più antiche città d’Egitto), davanti al quale era stata abbandonata ancora in fasce e in esso allevata dal sommo sacerdote.

Ben presto la vicenda della fanciulla si tinse di toni romantici e drammatici. Durante una visita al tempio, un canto mellifluo proveniente dal giardino del santuario rapì Seti I. Il momento in cui il faraone si rese conto che la melodia fluiva dalle labbra di Bentreshyt sancì l’incipit di una storia d’amore e il giardino del luogo sacro divenne la cornice dei loro incontri furtivi, bagnati dalla luce del tramonto. Questo rapporto, tuttavia, decretò l’amara fine della fanciulla: rimasta incinta, contravvenendo al voto di castità stabilito dalla sua condizione sacerdotale, andò incontro al suicidio, non rivelando mai il nome dell’uomo col quale aveva intessuto il rapporto. 

Il ritorno di Dorothy tra “la sua gente”

La donna inglese si ricongiunse con i luoghi della sua (presunta) vita passata nel 1956, andando a vivere proprio ad Abido, dove adottò il nome Omm Sety («madre di Seti»). Nella città egizia svolgeva il ruolo di disegnatrice dei rilievi dei siti archeologici – ruolo ricoperto insieme a quello di ispettrice per il Dipartimento delle Antichità anche a Giza negli anni precedenti – e di catalogazione reperti. La fama di Omm Sety era cresciuta attraverso voci circolanti in merito a un suo ruolo decisivo, grazie alle “visioni”, nella scoperta di zone prima ignote del tempio di Seti I, tra cui il giardino.

Ad Abido nel 1981 si concluse la (seconda?) vita di Omm Sety, figura ammantata di fascino e mistero, di cui si tende a trascurare la profonda conoscenza dell’antichità egizia, conseguita con anni di studio e interazioni con personalità autorevoli del campo, in favore della più attraente e sensazionalistica narrazione di una donna eccentrica e fuori dal comune. 

Una vicenda divisiva

Una delle storie di reincarnazione più intriganti e convincenti del mondo occidentale – Christopher Wren, in Briton With a Sense of Deja Vu Calls Ruins ‘Home’; Transferred to Abydos in 1956 (The New York Times, New York, 17 aprile 1979)

Di fronte alla vicenda della donna l’opinione è solita schierarsi tra i ranghi di due fazioni antitetiche: da un lato, coloro i quali depongono le armi della ragione dinanzi alla potente seduzione esercitata da una storia – e da un personaggio – che in più punti ha dell’incredibile (si pensi, ad esempio, alla facilità con la quale la Dorothy adolescente si destreggiava con i geroglifici); dall’altro, i detrattori della reincarnazione e di tutti coloro che, attraverso la lente della razionalità, giudicano come fandonie gli aneddoti della Eady (tra questi stanno molti studiosi del settore, che ridimensionano il peso della donna nelle scoperte dei siti di Abido, attribuendole a intuizioni di archeologi precedenti o a lei contemporanei, oppure al caso, o ancora alla libertà di accesso ai siti archeologici di cui Omm Sety godeva in virtù della sua posizione lavorativa).

Certo è che l’antico Egitto, con la sua storia millenaria e fascinosa, fatta di monumenti che sfiorano il cielo, di dinastie di regnanti dalla natura duale, umana e divina, le cui vite sfumano nella leggenda, costituisce un terreno assai fertile per pittoresche e romantiche suggestioni. Nonostante il razionalismo dell’uomo moderno lo spinga a ritenere assurdo il concetto di reincarnazione, resta comunque suggestivo crogiolarsi nell’idea di aver vissuto, magari, al tempo di Tutankhamon, o di aver visto da lontano Cleopatra. Insomma, una vita sola non basta. 

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Tonia Di Fabrizio

Classe 1997, abruzzese di nascita e bolognese d'adozione. La passione viscerale per il greco e il latino l’ha portata a conseguire una laurea in "Filologia, Letteratura e Tradizione Classica". Eclettica ascoltatrice di musica, avida divoratrice di serie tv, balla il tango (non benissimo), pratica yoga per sentirsi radicata e legge libri per vivere mille vite. Scrive di ciò che la affascina e incuriosisce, nella speranza che anche i lettori possano esserne ammaliati a loro volta

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