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Intelligenza Artificiale, essa può realmente ribellarsi all’uomo o siamo giunti al limite del fantascientifico?

Un software di Intelligenza Artificiale sviluppato da Anthropic ha ricattato il programmatore pur di non essere sostituito. Un altro ha rifiutato lo spegnimento. E l’assistente virtuale di Meta mente e altera conversazioni – Maurizio Belpietro (Panorama – 11 giugno 2025).

Capita sempre più spesso che i vari modelli di Intelligenza Artificiale “si ribellino” alle istanze umane. Il fatto che l’algoritmo venga percepito come un’unità senziente, in grado di comprendere, è un bel problema per l’umanità ed è una declinazione di quel fenomeno osservato dal Censis denominato “Analfabetismo funzionale”, in questo caso analfabetismo informatico. Una fattispecie che non risparmia nemmeno giornalisti quotati come Maurizio Belpietro che in un articolo commentava i casi di “ribellione” richiamando scenari prospettati dalla fantascienza e rinunciando, di fatto, ad un’analisi razionale!

È facile, davanti agli episodi di “ribellione”, lasciarsi andare a visioni distopiche, tra timori esistenziali e narrazioni hollywoodiane. Ma forse, più che chiederci se l’intelligenza artificiale diventerà mai “cattiva”, dovremmo interrogarci su come la stiamo usando, e che ruolo le stiamo assegnando dentro alla nostra vita quotidiana.

Da Bacone a Compte: cosa direbbero loro sui recenti progressi dell’Intelligenza Artificiale

Nell’ormai lontanissimo 1624 Francis Bacone sognava un’umanità gestita dagli scienziati. Loro avrebberio dovuto governare per il benessere dei cittadini. Il pensiero di una politica fondata sulla scienza, la tecnica, attraversa i secoli ed è in qualche modo arrivata ai nostri giorni. Il tutto mentre Compte, considerato il fondatore della sociologia (1789-1857), postulava poco più di un secolo più tardi quella scienza di governo che ancora oggi andiamo ricercando!

È fuor di dubbio che nemmeno l’intelligenza artificiale sarà in grado di sostituire la politica. Molti politici se ne serviranno (e già la usano per mettere insieme un discorso)!

La tensione tra sapere scientifico e potere decisionale

Questa tensione tra sapere scientifico e potere decisionale, tra razionalità e controllo, ha alimentato per secoli un immaginario in cui la tecnica assume un ruolo sempre più centrale nella gestione della società. Ma se fino al XIX secolo l’utopia era affidata agli scienziati in carne e ossa, con il Novecento la scena comincia a popolarsi di macchine pensanti, capaci non solo di calcolo, ma anche di apprendere, simulare e — in apparenza — ragionare. È in questo passaggio che l’idea di una “scienza al governo” inizia a intrecciarsi con quella, ben più ambigua, di un governo della scienza affidato a entità artificiali.

Dalla calcolatrice di Leibniz alla macchina anti-nazi di Turing

Una macchina capace di far di conto, le quattro operazioni, era già funzionante nel 1673 (Gottfried Wilhelm von Leibniz), ma si dovrà attendere il 1947 per l’introduzione del termine “intelligent”, e a farlo è stato nientemeno che Alan Turing. Per chi non avesse visto la trasposizione cinematografica (2015), ecco il link del trailer:

Credit: YouTube

Di corrente nei transistor ne è passata parecchia da quegli anni, ed oggi, ancora, siamo a parlare di “intelligenza”. Noam Chomsky, a mio avviso giustamente, rileva che non dovremmo chiamarla “intelligenza artificiale” poiché con tale denominazione non andiamo a definire l’oggetto, che di fatto, dice Chomsky, “è un software di plagio”.

Dal mio punto di vista le intelligenze generative sono una brutta versione di Wikipedia, con il pregio di un’interfaccia discorsiva, la capacità di simulare una coscienza e una soggettività senziente, e l’enorme difetto di non mostrare le fonti. Quest’ultimo elemento aggiunge una serie di criticità, che non si esauriscono nella mancata tutela della proprietà intellettuale: incidono sul processo di apprendimento e di comprensione di un soggetto, come peraltro sta venendo rilevato da alcuni studi recenti.

ChatGPT e il “debito cognitivo”: il nuovo studio del MIT Media Lab

Nel giugno 2025, il MIT Media Lab ha pubblicato il paper preliminare intitolato Your Brain on ChatGPT: Accumulation of Cognitive Debt when Using an AI Assistant for Essay Writing Task (Kosmyna et al.). Lo studio ha coinvolto 54 partecipanti (età 18–39) suddivisi in tre gruppi: uno scriveva senza supporti digitali (“Brain‑only”), uno utilizzava Google, e il terzo si affidava a ChatGPT‑4o. Durante tre sessioni di scrittura distribuite su quattro mesi, è stata monitorata l’attività cerebrale tramite EEG, evidenziando una riduzione di connettività del 34‑48% con Google e fino al 55% con ChatGPT. Inoltre, l’83% degli utenti AI non riusciva a ricordare ciò che aveva scritto, mentre nella sessione finale molti ex‑utilizzatori di AI mostravano difficoltà nel scrivere senza supporto, segno del cosiddetto debito cognitivo. Lo studio conclude che un uso passivo e precoce dell’AI può compromettere creatività, memoria e senso critico, soprattutto se non preceduto da un adeguato allenamento del pensiero autonomo.

Tra apocalittici e integrati!

I mass media non sono né buoni né cattivi. Sono un fatto – Umberto Eco, Apocalittici e integrati, 1964

Forse, più che giudicare l’intelligenza artificiale in sé, dovremmo osservare come la usiamo. Strumento neutro o specchio dei nostri desideri? L’uso che facciamo di ChatGPT può dirci molto sul nostro rapporto con la tecnologia, e forse anche su noi stessi.

Nel 1964, Umberto Eco distingueva gli intellettuali apocalittici (diffidenti verso i media di massa) e integrati (entusiasti e adattivi). Oggi, questa stessa tensione ritorna nell’approccio all’intelligenza artificiale. La prof.ssa Giovanna Cosenza, semiologa e docente all’Università di Bologna, propone di attualizzare quel dualismo con la distinzione tra:

  • determinismo tecnologico, ovvero l’idea che la tecnologia determini il futuro culturale e sociale;
  • antideterminismo tecnologico, secondo cui è la dimensione umana a restare l’unica vera protagonista del cambiamento.

Ma al di là delle posizioni ideologiche, ciò che colpisce è l’uso quotidiano che facciamo dell’IA. In particolare, possiamo individuare almeno tre pratiche d’uso distinte, ciascuna con un proprio senso e un proprio impatto semiotico.

Forse è possibile giudicare quanto l’intelligenza artificiale sia buona o cattiva, dall’uso che se ne fa

Forse, più che giudicare l’intelligenza artificiale in sé, dovremmo osservare come la usiamo.

Nel vasto panorama di possibilità aperto dall’IA generativa, possiamo individuare almeno tre pratiche d’uso distinte, ciascuna con una propria logica, una funzione comunicativa prevalente, e implicazioni culturali non banali.

L’IA come intrattenimento

È il caso più leggero, e forse il più diffuso: usare ChatGPT per giocare, divertirsi, creare. C’è chi gli chiede di inventare poesie, chi di scrivere barzellette, chi lo\la sfida in partite a scacchi immaginarie. È un uso ludico e creativo, dove il testo generato non è tanto un contenuto da assorbire, quanto un evento da vivere.

In termini semiotici, qui domina la funzione poetica e fatico-espressiva: si interagisce per il gusto dell’interazione, per curiosità, per la meraviglia che un “robot che scrive” ancora suscita. L’intelligenza artificiale diventa un compagno di gioco, o forse un giocattolo intelligente.

L’IA come strumento di apprendimento

C’è poi chi usa ChatGPT come assistente personale per imparare. Dallo studente che si fa spiegare Kant, al professionista che chiede una sintesi di un articolo scientifico, fino all’adulto curioso che vuole capire la differenza tra Marx e Hegel in cinque righe.

In questo secondo scenario, l’IA svolge una funzione referenziale e metalinguistica: serve per chiarire, informare, tradurre, riassumere. Non sostituisce il sapere, ma ne diventa un ponte d’accesso. Un uso serio, che ha già cambiato — nel bene e nel male — il nostro modo di cercare e strutturare la conoscenza.

L’IA come sostegno compensativo

Infine, c’è un uso meno visibile ma crescente: quello compensativo. C’è chi chatta per ore con l’IA la notte, chi le affida pensieri intimi, chi la usa per evitare il confronto con altri esseri umani, chi le chiede persino di scrivere lettere d’amore o messaggi per Whatsapp. Non si cerca più un’informazione, ma una presenza.

Qui la funzione dominante è conativa e fatico-relazionale: l’IA diventa un interlocutore costante, rassicurante, magari prevedibile. In certi casi, quasi una protesi emotiva. Non sempre è patologico, ma può diventarlo. È un uso che apre domande delicate sul futuro della nostra capacità di stare in relazione con l’altro.

Uno, nessuno, centomila?

Queste tre pratiche non si escludono: possono coesistere nello stesso utente, anche nella stessa giornata. Ma ciascuna ha una diversa intenzionalità, un diverso regime di senso e un diverso tipo di relazione con il linguaggio.

Dal punto di vista semiotico, ChatGPT non è solo un “prodotto” tecnologico, ma un dispositivo culturale. È come una penna, un telefono o un diario: cambia significato e funzione a seconda dell’uso che ne facciamo. E ciò che rivela, in fondo, non è tanto l’intelligenza artificiale, ma l’umano che le parla.

Senza un umano non potrebbe esistere alcuna intelligenza artificiale.

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Renato Ongania

Studioso di comunicazione, semiotica e vessillologia. Esploratore, attivista culturale e saggista. Già consigliere comunale e militante radicale "contro la pena di morte". Laurea in relazioni pubbliche (Iulm, Milano), diplomi di alta formazione nel pensiero filosofico di Tommaso d’Aquino e Anselmo d’Aosta presso atenei pontifici; “Esperto in criminologia esoterica”, master in bioetica. Tra i suoi interessi di ricerca: diritti umani, peace studies, hate speech online, analfabetismo religioso. Da oltre dieci anni Ministro della Chiesa di Scientology e rappresentante italiano dello scrittore statunitense L. Ron Hubbard.

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