Basta leggere il testo per capire che Parole di burro, canzone di Carmen Consoli pubblicata nel 2000, è un dialogo con un narcisista. Un uomo che ammalia con il racconto di sé, che modella e seduce a colpi di parole leggere come burro, ma anche scivolose, inconsistenti. Carmen Consoli lo chiama “Narciso”: trasparenza, mistero e, soprattutto, apparenza.
“Narciso trasparenza e mistero
Cospargimi di olio alle mandorle e vanità, modellami
Raccontami
Le storie che ami inventare, spaventami
Raccontami
Le nuove esaltanti vittorie
Conquistami, inventami
Dammi un’altra identità
Stordiscimi, disarmami e infine colpisci
Abbracciami ed ubriacami”
Dietro l’ironia e la sensualità che la cantautrice evoca, c’è l’eterno gioco del narcisista: modellami, inventami, spaventami, illudimi e infine colpiscimi. Una canzone con una melodia dolcissima, come il canto delle sirene di Ulisse. Una danza affascinante, ma tossica.
Ho sempre adorato questa canzone, la ascoltavo e mi incantava per la sua soavità; mi crogiolavo dentro le immagini evocative che emanava. Ci vedevo il mio ideale di uomo, o almeno così mi raccontavo: affascinante, sfuggente, irresistibile. Ma il brivido mi è arrivato solo tempo dopo, tanto. Anni. Quando, da adulta e dopo avere vissuto una lunga ed estenuante relazione tossica, mi sono resa conto che quelle parole non erano poesia d’amore, ma il manuale del manipolatore.
“Dammi un’altra identità”, “Stordiscimi”, “Colpiscimi”: ma davvero avevo questa idea di amore? Sì, perchè avevo normalizzato un dolore, e mi ero costruita l’illusione che annullarsi e soffrire significasse amare.
Il problema non è solo l’uomo narciso. Il problema ero (siamo!) noi, cresciute dentro una cultura che ci ha insegnato che l’amore “vero” è tormento, è sacrificio, è struggimento. “Raccontami le storie che ami inventare”: e io (noi!) lì a sorridere, come se fosse naturale ascoltare bugie. A volte mi giustifico dando la colpa a una società che ha celebrato per secoli la donna che resiste e soffre, anziché quella che si libera e sceglie. Anzi, la prima, quella resiliente, era da ammirare. La seconda, quella scomoda, era la donna difficile, indomabile.
Carmen Consoli, nei suoi testi, ha dato voce a questa dipendenza collettiva. E molte di noi ci siamo riconosciute, trovando in quelle storie tragiche un riflesso, una complicità.
Oggi, riascoltando questo brano non lo canto più allo stesso modo. Non lo vivo come un inno romantico, ma come un monito. Non c’è nulla di affascinante in chi ti disarma per colpirti, in chi ti modella per annullarti.
La vera rivoluzione è uscire da quell’incantesimo. È imparare che non abbiamo bisogno di un “Narciso” per sentirci vive. Che non dobbiamo più confondere le parole di burro con la solidità dei fatti.
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