Ogni anno, il 25 aprile ci chiama a ricordare. Non si tratta di una ricorrenza qualsiasi o di una data passata che riguarda solamente i libri di Storia. Al contrario, l’Anniversario della Liberazione d’Italia dal nazifascismo, ad 80 anni di distanza, è una chiamata attuale alla coscienza democratica, alla responsabilità civile e alla memoria attiva, perché come diceva Primo Levi:
Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario
In tempi in cui la parola “libertà” viene spesso usata a sproposito o ridotta a mero slogan di partito, il 25 aprile ci rammenta cosa significa realmente conquistarsela. Non è un regalo, tantomeno un privilegio. Anzi, è una scelta. La medesima che fecero uomini e donne che decisero di rischiare tutto, persino la vita, nel tentativo, riuscitissimo seppur con gravi perdite, di opporsi ad un regime che li aveva ormai privati di qualsiasi cosa: diritti, dignità e futuro.
Ed è proprio in nome di quella presa di posizione, che in molti, troppi, riscattarono con la morte, che ancora oggi ci ritroviamo a discutere su cosa voglia dire davvero “festeggiare” la Liberazione. Nei giorni scorsi, infatti, il Ministro per la Protezione Civile e per le politiche del mare Nello Musumeci ha chiesto che le celebrazioni avvenissero con “sobrietà”, in rispetto del lutto nazionale di cinque giorni imposto dal Consiglio dei Ministri per via della triste dipartita di Papa Francesco. Una richiesta che può apparire legittima per alcuni, certo, ma che rischia di far scivolare il discorso pubblico su un crinale pericoloso: quello della normalizzazione, dell’abbassamento del tono, quasi a voler diluire il significato di una data che invece, oggi più di ieri, grida con maggiore e rinnovata forza.
Perché la sobrietà, quando si parla di memoria, non dovrebbe mai diventare silenzio. Eppure, in molte città italiane, abbiamo assistito ad una cancellazione o ad una riduzione delle iniziative, alla trasformazione di un atto civile in qualcosa da gestire con cautela. Tuttavia, ciò che suddetti comuni dovrebbero tenere a mente è che la memoria non è mai comoda. È scomoda, è viva, ed è in virtù di questo che PUO’ E DEVE essere coltivata, mai contenuta.
In siffatto contesto, il canto popolare “Bella ciao“, trasformatosi poi nell’emblema internazionale della Resistenza, diventa ancor più necessaria. Non si tratta soltanto di un inno alla libertà, puntualmente stornellato al pari di un rituale ormai vecchio e stanco, ma è la voce di chi non si è voltato dall’altra parte, di chi ha fermamente detto “NO”, in maniera radicale e coraggiosa, anche quando rimanere in silenzio era la strada più conveniente e sicura da intraprendere. E adesso, cantarla, non è solo un atto politico (nel senso più alto del termine), ma un modo per ribadire che non si può trattare il 25 aprile come una formalità da archiviare con garbo.
Celebrare la Liberazione, dunque, non è questione di galateo istituzionale. È una presa di posizione. In un tempo in cui si affaccia con preoccupante insistenza un revisionismo soft, che si nasconde dietro la parola “equidistanza”, serve più che mai riaffermare da che parte stare. E allora sì, festeggiamo. Con musica, con parole, con presenza. Perché se la memoria si piega alla diplomazia del momento, smette di essere tale per trasformarsi in qualcos’altro. E noi, ammettiamolo, non possiamo permettercelo.
“E se io muoio da partigiano“, risuona il testo. Non un canto triste, ma una promessa: che non smetteremo mai di scegliere. Anche quando farlo sembra fuori moda o ci renderà impopolari. Anche (e soprattutto) quando ci viene chiesto di abbassare il volume.
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