Sara Campanella è stata uccisa a coltellate in mezzo alla strada, Il 31 marzo scorso, a Messina, da Stefano Argentino, un ragazzo che la tormentava da oltre due anni. Non erano una coppia. Non c’era mai stata una relazione. C’era solo un rifiuto chiaro, coerente, ripetuto nel tempo. E c’era, dall’altra parte, un’ossessione malata mascherata da interesse, che si è trasformata prima in stalking e poi in femminicidio.
Sara lo aveva detto. Lo aveva detto con voce ferma, chiara, perfino gentile: «Cortesemente lasciami in pace». Ma Stefano non ha mai accettato quel no, e come spesso accade nei casi di narcisismo ossessivo, ha trasformato il rifiuto in colpa e poi in affronto personale.
Sara aveva registrato una conversazione tra i due, pochi giorni prima della tragedia, in cui provava a ribadire ancora una volta ciò che dovrebbe essere ovvio: che ognuno ha il diritto di vivere senza essere seguito, incalzato, manipolato. Ma quel no, pronunciato mille volte e con mille sfumature, è caduto nel vuoto.
Della conversazione, che riporto, mi hanno colpito alcune frasi di lui, chiari segnali del controllo e della colpevolizzazione, anche quando sono mascherati da “voglia di parlare”.
Sara Campanella: “Allora, l’ultima volta ti ho detto: lasciami in pace. Cosa hai capito di questa cosa?“
Stefano Argentino: “Sono passati tutta l’estate.”
Sara Campanella: “Allora ora te lo ridico e mi puoi lasciare magari in pace, cortesemente. Tu te ne torni a casa tua e io continuo per la mia strada. Non lo so, mi devi seguire?”
Stefano Argentino: “Perché fai così?”
Sara Campanella: “Perché faccio così? Non lo so, dico: mi stai seguendo!”
Stefano Argentino: “Cosa speri di ottenere?”
Sara Campanella: “Io non voglio ottenere nulla. Sei tu che vuoi ottenere qualcosa, se mi segui a sti livelli.”
Stefano Argentino: “Non è possibile parlare con te.”
Sara Campanella: “Non è possibile? Ma che cosa devi parlare di me, se il parlare per te significa provare e uscire e fare qualcosa? Mi dispiace.”
Stefano Argentino: “Non me l’hai detta sta cosa.”
Sara Campanella: “Perché fai così…”
Da questo scambio, emerge con chiarezza la dinamica tipica di chi esercita una manipolazione affettiva verso l’altro. Sara chiede solo una cosa: essere lasciata in pace. Lo fa con lucidità, con chiarezza, con la stanchezza di chi è già stata costretta troppe volte a spiegare l’ovvio.
Ma Stefano ribalta tutto con semplici frasi ma molto significative: “Perché fai così?” “Cosa speri di ottenere?” “Non è possibile parlare con te.”
Invece di prendere atto del rifiuto, Stefano colpevolizza Sara: insinua il fatto che sia lei a comportarsi male, in modo incomprensibile e ingiusto. Così facendo, confonde, destabilizza, fa sentire l’altra persona colpevole anche quando sta semplicemente esercitando un suo diritto: dire no.
Anche questa frase è significativa. È un modo per sminuire la chiarezza con cui Sara parla. Come se lei non avesse mai davvero spiegato, come se lui non sapesse, come se la responsabilità fosse ancora di lei, che non ha saputo comunicare. Stefano sembra confuso, smarrito, incompreso. Ma non è confuso. È pericolosamente lucido. Tanto da averla seguita con un coltello, con uno scopo preciso: quello che tristemente oggi piangiamo.
Quante volte deve dirlo, una donna, perché venga creduta? Con quanta chiarezza, una donna, deve spiegare che non vuole, non ricambia, non ne può più?
Sara lo aveva detto. Lo aveva detto agli amici. Le sue amiche sapevano che Stefano la seguiva, la tampinava, non le dava tregua da due anni. Ma la sua famiglia non ne sapeva nulla. Non sospettava che quella frustrazione, quella rabbia sottile e continua, quella paura strisciante fossero diventate una presenza quotidiana nella sua vita.
E non è la prima volta. Anche Giulia Cecchettin, pochi giorni prima di essere uccisa da Filippo Turetta, aveva registrato un lungo vocale in cui raccontava alle amiche il disagio, la stanchezza, l’angoscia di sentirsi incastrata in una relazione che non voleva più. Ma anche lei non ne aveva parlato con la famiglia.
Perché una ragazza che vive sotto pressione, che sente di non avere più aria, sceglie di confidarsi solo con le amiche? Perché in casa si tace, si minimizza? Forse si vuole proteggere chi ci ama dal nostro dolore? Forse per non deludere, per non creare preoccupazione, per non sentirsi dire: “ma sei sicura?”, “magari esageri”, “magari gli devi parlare meglio”.
È tempo di cambiare questa cultura del silenzio. Dobbiamo imparare a leggere i segnali invisibili, a fare domande vere, a creare uno spazio sicuro anche dentro casa, dove una ragazza possa dire: “mi sento perseguitata”, senza paura del giudizio.
Perché se una donna dice «lasciami in pace», non può essere lasciata sola.
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