Gaza: la morte del veterinario Mu’ath Abu Rukba tra una guerra che ricomincia e il silenzio che l’avvolge

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Gaza
Mu'ath Abu Rukba/Credit: Greememag.com

Nei giorni scorsi, Gaza ha perso un’altra vita civile, l’ennesima di molte, ossia quella di un veterinario che, come tanti altri, cercava di portare cura e normalità in un contesto ormai devastato dalla guerra. Come riportato da Greenmemag.com, il suo nome era Mu’ath Abu Rukba, aveva trent’anni e percorreva la strada di casa quando è stato ucciso. La sua ingiusta fine, però, non si può legare solamente alla morte di un “altro” uomo solo, perché essa è il riflesso di una tragedia che colpisce chi, giorno dopo giorno, vive tra le macerie e con la paura costante di una violenza diventata ormai quotidianità.

Mu’ath proteggeva la vita, ma a Gaza ha perso la sua

Come spesso accade nei conflitti, si sa, le notizie di queste morti sembrano passare in secondo piano, mentre ad emergere sono i numeri delle vittime militari o politiche. Tuttavia, questo non è stato il caso di Gaza. Ogni vita civile persa porta con sé una storia, un lavoro, un impegno per gli altri, un mondo di gesti che, spesso e volentieri, sfuggono ai grandi media. Mu’ath era una figura che incarnava la protezione della vita in tutte le sue forme, umana e animale, e il suo lavoro era un atto di resistenza morale, un segno di umanità in mezzo all’assurdità della guerra. In un contesto dove la sopravvivenza è un lusso, e chi si dedica al prossimo diventa simbolo di speranza e di dignità.

Ogni vita umana è preziosa, e ogni individuo merita dignità e rispetto – Martin Luther King Jr.

Parole che ci invitano a riflettere sull’importanza di ogni vita, anche quella apparentemente più piccola o invisibile. Non ci si deve limitare a contare le vittime. Anzi, è essenziale guardare chi, nonostante il caos, sceglie la via della cura e non quella dell’indifferenza. soprattutto perché, in un tempo in cui la guerra disumanizza, chi continua a proteggere, educare, curare, diventa la prova che la coscienza umana può ancora resistere.

La cura è una speranza per la pace

Eppure, sembra che la nostra attenzione collettiva si spenga di fronte a queste storie “minori”. Forse perché ricordano ciò che preferiremmo dimenticare. Vale a dire che la guerra non è fatta solo di strategie e confini, ma di persone che perdono la propria vita semplicemente per averne salvate altre. La morte di Rukba ci costringe a guardare in faccia la contraddizione di un mondo che celebra la forza, ma ignora la compassione. Riconoscere e valorizzare chi difende la vita, in tutte le sue forme, significa difendere anche la nostra umanità. Perché finché esisterà qualcuno disposto a curare piuttosto che a distruggere, a costruire invece di odiare, ci sarà ancora una speranza per la pace!

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