Viviamo in un’epoca in cui basta compiere una scelta qualunque, persino la più insignificante, per essere proclamati immediatamente eroi, martiri o addirittura santi in copertina. Persino la morte sembra essere diventata il trending topic del momento e il coraggio, quello vero, viene ormai barattato in maniera irreparabile da chi, della vita, pare non aver compreso assolutamente nulla. Sarà forse per questo che nella scelta delle gemelle Kessler, Alice e Ellen Kessler, recentemente scomparse per proprio volere nella loro casa di Monaco grazie alla pratica di suicidio assistito, in molti, troppi oserei dire, hanno visto un gesto romantico, per certi versi epico. Peccato solo, però, che la realtà sia molto meno glamour di quel che appare.
Eppure, basterebbe guardare oltre quel velo patinato attraverso il quale filtriamo quotidianamente il mondo che ci circonda per rendersene conto. Al di là della retorica, infatti, quella che resta è una verità che, per quanto scomoda o amara si possa ritenere, va affrontata. Perché, vedete, qui non ci troviamo di fronte all’ultimo atto di un’ultima grande performance, bensì dinanzi all’incapacità di due donne di immaginarsi vive, e realmente libere, l’una senza l’altra.
La morte non è la più grande perdita nella vita. La più grande perdita è ciò che muore dentro di noi mentre stiamo vivendo – Norman Cousins
Il suicidio di Alice e Ellen Kessler era una fuga annunciata
Lo avevano promesso da tempo e, alla fine, lo hanno fatto per davvero. Così come erano venute al mondo, allo stesso modo hanno deciso di abbandonarlo. ‘Insieme, comunque vada e nonostante tutto, tanto nella vita quanto nella morte‘ sarebbe potuto essere il loro motto. E chissà, magari lo era pure. Tuttavia, se c’è chi ritiene che la loro si possa considerare una decisione d’amore e di libertà, io non posso fare a meno di pensare che si tratti unicamente di codardia. Anche perché, sinceramente parlando, in una situazione del genere, se teniamo conto per giunta dell’assenza di condizioni croniche o patologie senza possibilità di guarigione, essere seriamente coraggiosi avrebbe potuto voler dire coltivare la vita ad ogni costo dinanzi all’irrimediabilità della morte, non certo metterle fine per il timore della separazione.
E poi, dov’è in questo la libertà? Mi dispiace doverlo ammettere, ma io non vedo alcun tipo di condizione legata all’autodeterminazione di sé. Anzi, tutto il contrario! Nessuna delle due, né Alice né Ellen, ha scelto di vivere liberamente fino all’ultimo giorno, ma entrambe si sono messe, consapevolmente, nella posizione di rimanere imprigionate e ancorate a se stesse in quello che è, sotto ogni aspetto, un atto egoistico a tutti gli effetti.
Una fuga dal retrogusto amaro di resa
Perciò, mi risulta piuttosto difficile parlare di eroicità contro la sofferenza, visto che ai miei occhi la loro è soltanto una fuga da quel vuoto che avrebbero percepito nel momento in cui una delle due se ne fosse andata. Insomma, la tipica dinamica di un legame simbiotico che era manifesto a chiunque, il triste epilogo di un’esistenza interamente costruita sull’unione e che, per questo, non è in grado di immaginare l’individualità.
Per carità, ognuno è libero di fare ciò che ritiene più opportuno, fin tanto che non limita la libertà altrui, ed è vero che, nel caso in questione, l’assistenza medica è regolamentata. Ciò nonostante, non posso ignorare la ‘comodità’ di evitare il disastro emotivo che si sarebbe prospettato se una delle due fosse rimasta sola, pensando alla possibilità di cercare un senso nella propria identità separata. Non intendo sminuire le loro sofferenze né giudicare chi vive situazioni altrettanto fragili, ma non starò qui nemmeno ad esaltarne la morte, dal momento che la vita, anche a 89 anni, è ancora un campo da coltivare: aspettare il buio o abbracciarlo insieme non è un sintomo di eroismo, ma di resa!!!
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