Era l’8 settembre del 2022 quando, tra le mura del castello scozzese di Balmoral, si spense la Regina Elisabetta II, una donna che ha attraversato intere generazioni con grazia, fermezza e devozione. Con la sua scomparsa, il mondo non ha perso soltanto una sovrana, ma una figura che ha incarnato, per quasi un secolo di Storia costituito esclusivamente da repentini mutamenti, il concetto stesso di continuità. La sua morte lascia un vuoto, avvertito tanto tra le mura di Buckingham Palace quanto all’esterno, dove la monarchia inglese sembra non avere più la risonanza imperiale e di prestigio che aveva conservato fino a qualche anno fa.
Il lascito di Elisabetta II: fragile continuità o prematura innovazione?
Nata nel 1926 e salita al trono nel 1952, Elisabetta II ha regnato più a lungo di qualsiasi altro monarca britannico, consacrandosi di diritto non solo come simbolo della tradizione ma anche (e soprattutto) come un’icona decisamente pop della post-modernità (cliccate “QUI” per il mio articolo a riguardo). Non serve indugiare, ancora una volta, in lunghe e sentite, ma forse anche stucchevoli, esaltazioni per riconoscere che la discendente di Re Giorgio sia stata, prima di ogni altra cosa, una certezza in una realtà costantemente assediata da dubbi e vacillazioni.

Difatti, nei momenti più difficili per la nazione (dai conflitti internazionali alle crisi interne, dal declino dell’impero alle sfide contemporanee) era sua la voce rassicurante che entrava nelle case di ciascun cittadini, a rinnovo e conferma di una stabilità che, a ben guardare, è stata in grado di sostenere. Non sarà sempre stata amata allo stesso modo e non si sarà trovata costantemente al riparo dalle critiche, specialmente nel periodo in cui Lady Diana fu sposa del Principe Carlo (cliccate “QUI” per il mio articolo a riguardo). Eppure, sia dentro che fuori i confini del “regno”, era percepita come qualcuno che c’era. Ma perché?
La forza di Lilibeth
In fondo, il suo stile non era quello dei grandi discorsi rivoluzionari tantomeno dei gesti clamorosi. Eppure, la sua sobria costanza, in un’epoca in cui i leader cambiavano rapidamente e le istituzioni venivano messe in discussione in maniera sistematica, è stata per lei un punto di forza. Insomma, Elisabetta II ha rappresentato una sorta di filo conduttore, non tanto per ciò che faceva, ma per ciò che rappresentava: una monarchia che cercava di adattarsi ai tempi senza snaturarsi.
E oggi, pur riconoscendone le numerose contraddizioni, celebrarne la memoria significa proprio questo, ossia riflettere su ciò che vuol dire realmente “servire” in un tempo in cui la politica è sempre più asservita e polarizzata. La sua eredità non appartiene solo ai britannici o al Commonwealth, ma a chiunque abbia vissuto in un secolo attraversato da trasformazioni immense e abbia trovato in lei, volente o nolente, un volto familiare. E chissà, più che il titolo o la corona, magari è esattamente questo ciò che la storia conserverà di Elisabetta. Del resto, invece, che cosa ne rimane?
Il dopo-Elisabetta
Con la sua morte, come già accennato all’inizio, la monarchia ha perso definitivamente quell’aura “imperiale” che lei, con la sola presenza, era riuscita a preservare. Elisabetta rappresentava l’ultimo filo diretto con un’Inghilterra che si percepiva ancora come potenza globale, custode di un prestigio che oggi appare più fragile. Una qualità che, forse, si riflette perfino nel silenzio che avvolge il suo testamento, il quale non è solamente vincolato ad una scelta di tradizione, ma è anche un simbolo.
In un tempo in cui la trasparenza è parola d’ordine, tale discrezione sembra quasi un ultimo gesto di coerenza della sovrana con la sua vita pubblica: mai invadente, mai troppo personale, sempre attenta ad incarnare il ruolo più che a mostrare la persona. È come se, pure dopo la morte, avesse voluto lasciare un’eredità più simbolica che materiale: quella della continuità, del senso di stabilità che il suo lungo regno ha garantito. Ma potrà realmente continuare ad essere così in futuro?
Carlo III e il nuovo volto della monarchia

Con Carlo III, infatti, la Corona ha immediatamente cambiato volto: meno mito, più vulnerabilità. Anzi, il nuovo sovrano porta avanti la sua battaglia contro la malattia con un coraggio che colpisce e con una schiettezza che sorprende. I suoi incontri con i pazienti oncologici, le battute autoironiche sui “pezzi che non funzionano più” oltre i settant’anni, hanno restituito un’immagine umana e meno distante della famiglia reale, e più in generale, della Corona. Ciò nonostante, tale umanizzazione porta con sé un rischio: quello di identificare l’istituzione con la fragilità del singolo.
Se con Elisabetta la monarchia era solida, dunque, con Carlo pare esser divenuta piuttosto instabile. Per non parlare, poi, della difficile situazione con il figlio ribelle, il Principe Harry che, tra scandali taciuti e retroscena dimenticati, non perde occasione per infliggere colpi ancor più duri alla già claudicante Caroline Age e mostrare un’ulteriore punto debole della monarchia: la difficoltà di separare ciò che è pubblico da ciò che è privato. Una lite familiare diventa inevitabilmente una questione di palazzo, mettendo a nudo la precarietà dell’equilibrio che tiene, o dovrebbe tenere, insieme l’intera struttura.
Specchio di un’umanità condivisa?
Il testamento non svelato, la salute incerta del re e le tensioni con Harry sono elementi all’apparenza distanti, ma legati da una radice comune. Difatti, essi evidenziano quanto la monarchia inglese non sia più il simulacro di potenza e prestigio di un tempo, ma un’istituzione che tenta di resistere in una realtà che le remerebbe costantemente contro. C’è chi sostiene che è in quest’aspetto che risiede il suo senso odierno: non tanto vestigia di un impero passato, ma specchio di un’umanità condivisa.
Come scriveva Virginia Woolf:
Ogni segreto dell’anima di un autore, ogni esperienza della sua vita, ogni qualità della sua mente, è scritto nelle sue opere
Così anche la monarchia britannica, dopo Elisabetta II, non può più nascondere i suoi segreti dietro l’aura “Reale”: mostra se stessa, con tutte le sue crepe, come parte viva e imperfetta di un mondo che era destinato a voltare pagina.
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