Nessuno lascia la propria casa a meno che casa sua non siano le fauci di uno squalo — Warsan Shire, poetessa britannico-somala
A partire dal 1914, su iniziativa di Papa Benedetto XV, e in seguito a svariati cambi di data consolidatisi soltanto nel 2019, l’ultima domenica del mese di settembre si celebra la “Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato” (GMMR). Sebbene passi spesso inosservata, essa è la più antica giornata celebrata dalla Chiesa Cattolica e venne istituita per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla condizione dei migranti e dei tantissimi profughi che cercavano di fuggire dalle devastazioni della Prima Guerra Mondiale.
Da allora, se per certi versi lo scenario appare decisamente cambiato, sotto tanti altri punti di vista le cose, purtroppo, non vanno così diversamente. Anzi, forse sono addirittura peggiorate. Il mondo si trova di fronte a cifre mai viste prima, scelte politiche controverse, insofferenza della popolazione nei confronti di un fenomeno sempre più sregolato, perlomeno all’apparenza, e una crescente distanza tra dichiarazioni che puntualmente si riducono a mera retorica ed azioni concrete. E forse è proprio per questo che tale ricorrenza meriterebbe oggi una maggior considerazione.
I numeri di una realtà drammatica e lo scopo della “Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato”
Stando a quanto rivelano i dati forniti dalle Nazioni Unite e dall’OMS, alla fine del 2024 erano ben oltre 122,6 milioni le persone sradicate dalla propria terra, costrette a fuggire a causa di conflitti, persecuzioni, instabilità politica o eventi climatici estremi. Basti pensare che nella sola regione europea si contavano circa 13,2 milioni di rifugiati, esiliati o sfollati interni. Statistiche sorprendenti, dietro alle quali, però, si nascondono aspetti che troppo spesso tendiamo a dimenticare. Quelli che siamo soliti ridurre in maniera frettolosa e semplicistica a numeri, sulla base di una fantomatica “invasione” e di una presunta “pressione migratoria voluta” che ci spingono a respingerli (umanamente e politicamente parlando) con estrema facilità, sono in realtà volti, storie, famiglie, persone.
Costruire ponti anziché innalzare muri

Pensiamo alle migliaia di vite distrutte a Gaza e a quei pochi fortunati che avranno l’opportunità (se l’avranno!) di fuggire altrove alla ricerca di una sorte migliore o, più “banalmente”, da quella sorte certa che in patria li attende. Oppure, alle decine di barconi che quotidianamente sfidano le acque del Mediterraneo, la più grande distesa d’acqua e morte del XXI secolo, nella speranza, il più delle volte vana, di riuscire ad approdare in un porto sicuro, lontani da guerre e soprusi, o quantomeno di sfuggire alle rappresaglie della guardia costiera libica. E infine, a chi prima di noi, verosimilmente i nostri genitori o i nostri nonni, ha intrapreso una strada similare per cercare “fortuna” all’estero.
Questo non dovrebbe bastarci a renderci più propensi a costruire ponti (e non parlo di quello sullo Stretto di Messina) anziché muri? Perché ci ostiniamo ad alimentare divisioni quando, dinanzi ad una classe dirigente incapace di sopperire ai bisogni di coloro che le chiedono aiuto, siano essi cittadini o extracomunitari, potremmo far sentire realmente la nostra voce? E non vale soltanto per le proteste al grido di “Free Palestine” o per il Mondiale di Pallavolo del momento, ma per qualsiasi cosa per cui valga la pena di lottare. Perché, diciamocelo, qualunque sia il contesto in cui vorremmo incasellare un simile discorso, se lasciamo ai margini milioni di persone, le conseguenze di un tale atteggiamento si riversano, inevitabilmente, sull’intera collettività.
Chiesa e politica: perché limitarsi ai bei discorsi?
È facile parlare di diritti umani, più difficile è difenderli quando mettono alla prova la nostra comodità, le nostre economie, i nostri equilibri politici, quelle professioni che, a detta di molti, questi poveri sventurati sarebbero venuti a rubarci. La verità è che la migrazione non è un “problema da risolvere” o una spina nel fianco da spostare furbamente altrove, e ce lo hanno dimostrato i fallimentari centri in Albani a cui Giorgia Meloni (cliccate QUI per recuperare il nostro articolo a riguardo) sembra essere tanto affezionata.
Al contrario, si tratta di un fenomeno strutturale della nostra epoca, conseguenza di guerre e diseguaglianze che, pur non avendo di fatto nelle nostre mani gli strumenti necessari per poterle arrestare, non abbiamo il diritto di fomentare a discapito della vita altrui. Perciò, qual è la misura dell’umanità in questo secolo di migrazioni?
È da ipocriti celebrare i diritti umani e poi abbandonare chi bussa alle nostre porte, motivo per il quale noi cittadini abbiamo il dovere di non lasciare che sia la paura a decidere al nostro posto e la Chiesa, promotrice della GMMR, di non limitarsi ai bei discorsi dall’alto del Soglio Pontificio o ad indire ulteriori “giornate” nell’ambito del Giubileo, perché la misura della nostra civiltà sarà scritta nelle vite che adesso decidiamo di salvare oppure di ignorare.
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