Con il tempo e un po’ di maturità ho compreso che stare soli, o meglio, avere pochissime persone ‘nel mio primo anello’, non è proprio così male. Da figlia unica, sono continuamente andata alla ricerca di tante persone che potessero stare attorno a me, sia in ambito privato sia a livello professionale, capendo, poi, che non è la moltitudine a fare la differenza, ma una scelta sapiente di individui con i quali avere affinità, poche o anche pochissime.
Non a caso, ho compreso che, contrariamente a ciò che siamo abituati a pensare, la solitudine può (e in certi casi DEVE) essere un momento di evoluzione, riflessione, comprensione. Perciò, perché non sfruttarla al meglio?
La solitudine come momento di evoluzione
Finché sarai fortunato, conterai molti amici: se ci saranno nubi, sarai solo – Ovidio
Così disse il celebre autore latino e devo ammettere che non aveva affatto torto. Al di là di qualsiasi aspetto positivo vi si possa ravvisare, in effetti, la solitudine contemporanea è e resta comunque uno dei mali della nostra epoca. Quanta gente oggigiorno si sente sola? In quanti hanno bisogno di caos intorno a sé chissà, magari per non fermarsi a pensare, in un ritmo incessante fatto spesso solo di confusione e problemi messi sotto il tappeto?
Accade nelle vite delle persone comuni, in quelle delle cosiddette Very Important People. Non fa differenza tra le età o di generazione. E un più, non distingue tra classi sociali o partiti politici, come accade perfino nel caso di importanti figure del panorama istituzionale internazionale. Perché l’inconscio, per chi non lo sapesse, non appartiene solo al singolo, ma attraversa anche le istituzioni, la politica e la cultura.
Il punto di vista dello psicanalista Gianpaolo Furgiuele
Lo sa bene lo psicanalista e sessuologo Gianpaolo Furgiuele, il quale ci racconta oggi le solitudini contemporanee di cui, forse, nessuno si accorge. Formatosi in Francia, con alcuni allievi di Jacques Lacan, ha portato la psicoanalisi fuori dallo studio per interrogare il potere e la società. Alterna la pratica clinica alla scrittura saggistica, con l’idea che l’inconscio sia una caratteristica collettiva, ben più grande di quanto immaginiamo.
Difatti, le sue analisi hanno riguardato figure come l’ex primo ministro francese François Bayrou, il Presidente Emmanuel Macron e il leader della sinistra radicale Jean-Luc Mélenchon, al quale ha dedicato un libro che unisce rigore clinico e lettura simbolica del pouvoir. Ciò nonostante, le solitudini odierne che esplora non si limitano al potere. Al contrario, ci sono pure quelle degli “autori maledetti”, a cui ha dedicato la sua tesi di dottorato, come René Crevel, Jean-Pierre Duprey, Jacques d’Adelswärd-Fersen e altri ancora. Insomma, a scrittori che hanno fatto della follia e del desiderio una forma estrema di libertà. Attraverso loro, dunque, Furgiuele interroga la fragilità come cifra del nostro tempo, un’epoca in cui la malattia psichica diventa linguaggio e l’inconscio resiste all’omologazione.

Che dire, c’è chi analizza i sogni e chi analizza il potere, e Furgiuele fa entrambe le cose.
Meglio ‘soli’ o con ‘pochi ma buoni’?
Per Luigi Pirandello, si sa, l’unico modo per riappropriarsi della propria libertà, in una società piena di maschere, è la follia, al di là dei ruoli che siamo costretti a interpretare e a identità costruite ad arte. Non aveva torto quando diceva che gli uomini sono come intrappolati in prigioni soffocanti, necessarie per non essere allontanati dagli altri. Ma mi chiedo, la solitudine è così negativa o probabilmente è meglio una accurata selezione di rapporti, per non perdersi in una folla di persone inutili per la nostra evoluzione e a noi non affini? Si tratta di una sorta di follia sapiente quella che dovremmo adottare, optando per pochi, se non pochissimi rapporti tra persone simili a noi per anima, sensibilità, interessi, affinità?
Domande, alle quale ho cercato di rispondere rivolgendomi proprio a Furgiuele in persona.
L’intervento di Furgiuele
Perché vedi nella follia e nel desiderio una forma estrema di libertà?
“Per la psicoanalisi, la follia non è semplicemente una “malattia” da correggere, ma un linguaggio, un modo estremo con cui il soggetto tenta di dire ciò che non può essere detto altrimenti. In questo senso, essa rappresenta la libertà di sottrarsi all’ordine simbolico che ci impone di essere “normali”, di parlare e desiderare come gli altri. Il folle mette in scena la verità nuda del desiderio e la sua “libertà” non è a Mio avviso senza prezzo”.
La psicoanalisi può essere vista come una forma di resistenza culturale, perché si oppone a una mentalità che tende a razionalizzare e a controllare l’individuo, promuovendo invece l’esplorazione dell’inconscio e delle pulsioni. L’individuo resisterà spesso, per rifiuto e difesa dell’inconscio di fronte al dolore, ma a differenza di visioni totalizzanti della società, si concentra sulla singolarità dei soggetti, mettendo in luce la fragilità umana di fronte alla civiltà. Perciò, la psicoanalisi ha avuto un’enorme influenza sulla cultura occidentale, dalla filosofia all’arte, mettendo in discussione il primato della razionalità e aprendo nuovi modi di interpretare l’esperienza umana.
Credi che la psicoanalisi possa ancora oggi offrire una forma di resistenza culturale?
“Sì, credo che la psicoanalisi possa e debba rappresentare ancora oggi una forma di resistenza culturale abituati come siamo a letture del mondo rapide, immediate, spesso ridotte a slogan o a reazioni emotive, la psicoanalisi mantiene un tempo e un linguaggio di altro tipo. È una pratica del pensiero lento, che non cerca il consenso. In questo senso al linguaggio dei media, all’ideologia dell’efficienza e della performance che domina la nostra epoca. Nell’ atto di interrogazione del soggetto, del potere, del desiderio risiede forse la sua forma più alta di resistenza“.
Portare la psicoanalisi fuori dallo studio…
“Sigmund Freud stesso non si è mai limitato alla clinica, ha scritto su arte, religione, politica, civiltà. Portare la psicoanalisi fuori dallo studio significa dunque farla dialogare con la società, con il potere, con i media, con le trasformazioni del desiderio contemporaneo. Viviamo in un tempo in cui l’inconscio non si manifesta solo nei sintomi individuali, ma anche nelle istituzioni, nelle crisi collettive, nelle derive identitarie. Analizzare questi fenomeni con gli strumenti della psicoanalisi è un modo per comprendere ciò che sfugge alle scienze sociali tradizionali“.
Come interpreti, da psicoanalista, il momento politico che vive oggi la Francia?
“Vedo una Francia attraversata da un grande vuoto simbolico. Le parole della politica non rappresentano più il reale. La risposta, quando c’è, avviene in modo automatico. È come se il legame sociale fosse entrato in una forma di depressione collettiva nella quale il cittadino non crede più alla promessa del discorso politico. Ogni volta che il simbolico si indebolisce, il reale ritorna sotto forma di rottura. Ed è proprio da questo rifiuto che i movimenti estremisti trovano lo spazio per emergere”.
Credi che la psicoanalisi possa offrire strumenti per leggere la politica meglio dei sondaggi e delle analisi sociologiche?
“Non vedo perché la psicoanalisi non dovrebbe muoversi anche nel terreno della politica. Il linguaggio è politica, la sessualità è politica: tutto ciò che riguarda il desiderio e il potere lo è. La psicoanalisi offre strumenti che vanno oltre la statistica o la sociologia, perché non si limita a descrivere i comportamenti, ma cerca di capire ciò che li muove, il fantasma, l’inconscio, la pulsione. I sondaggi misurano l’opinione, la psicoanalisi interroga il senso. Essa mostra come, dietro le scelte elettorali, le adesioni o i rifiuti, si muovano dinamiche affettive, identificative, spesso infantili“.
Hai analizzato figure come Macron o Mélenchon: cosa ti ha colpito di più del loro rapporto con il potere?
“Tutte queste figure, come chiunque si esponga al potere, sono inevitabilmente attraversate dal narcisismo. Non parlo di quello patologico, dove l’immagine di sé diventa un feticcio da difendere a ogni costo, dove il soggetto non tollera la critica né la limite e il potere diventa una protesi dell’ego. Parlo di quel narcisismo strutturale, necessario per sostenere lo sguardo dell’altro e incarnare una funzione simbolica. Il confine, però, è sottile. In Macron, ho osservato un eccesso d’identificazione con la parole du chef, la convinzione che la Loi coincida con la propria voce. In Mélenchon, invece, una tensione quasi messianica, una quête d’amour déçu, come se il peuple rappresentasse al tempo stesso il padre e il figlio perduti“.
Cosa ti lega agli “autori maledetti” come Crevel, Duprey o d’Adelswärd-Fersen?
“Mi lega a loro un senso di prossimità con l’inquietudine. Crevel, Duprey e d’Adelswärd-Fersen sono figure che hanno cercato di conciliare il desiderio, l’eros e la morte, e che, proprio per questo, non hanno trovato posto nel mondo. In loro, la ferita si fa linguaggio, e quel linguaggio diventa una forma di verità. Non li considero soltanto “autori maledetti”, ma soggetti che hanno spinto la parola fino al limite del dicibile. Mi interessano perché interrogano il legame tra creazione e distruzione, tra follia e legittimazione, e perché la loro opera, in fondo, mette a nudo. Forse mi lega a loro la convinzione che l’arte, come la psicoanalisi, nasce sempre da una mancanza e che è proprio in quella soglia fragile che si rivela la forma più alta di libertà“.
Lecornu ha accettato un secondo mandato, quale è la tua opinione a riguardo?
“L’accettazione di un secondo mandato da parte di Lecornu mostra “la ripetizione”. Freud direbbe che si ripete ciò che non si è potuto elaborare. In questo caso, la classe dirigente francese sembra prigioniera del potere che si ricicla invece di trasformarsi. Una difficoltà collettiva ad accettare la finitudine, a pensare la successione e la discontinuità. Come se la Repubblica, nel suo inconscio, temesse quella castrazione simbolica che ogni cambiamento comporta. Forse è questo il vero segno della fine della Quinta Repubblica?“.
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