Ogni giorno, quando esco di casa, sento su di me gli sguardi dei bambini. Alcuni mi osservano incuriositi, altri chiedono a voce alta: “Perché cammina così?”; oppure “Perché parla in quel modo?”. La scena si ripete spesso: io, che cammino con il mio deambulatore, affronto con serenità il mondo esterno; loro, piccoli esploratori sinceri, cercano di dare un senso a ciò che vedono. Non mi arrabbio. So che i bambini non guardano per cattiveria. Ma ogni volta penso a quanto sia importante che qualcuno, in quel momento, li aiuti a capire. A vedere oltre ciò che sembra strano o diverso. A riconoscere che davanti a loro c’è una persona, non solo un corpo che si muove lentamente o una voce che fatica a uscire. Perché non sono una “disabile”, ma una persona con disabilità!
La disabilità non è una ‘tragedia’. Tragedia è non riuscire a vedere la persona oltre la disabilità — Mary Johnson, attivista per i diritti delle persone con disabilità
Come far capire agli altri che “non sono una disabile”, ma una persona prima di tutto?
Quando diciamo “disabile”, usiamo una parola che riduce, che appiattisce la complessità di una persona su un solo aspetto della sua esistenza: la sua disabilità. Ma nessuno di noi è solo la sua condizione. Io non sono “una disabile”. Io sono Beatrice. Sono una donna, una creativa. Cammino con un deambulatore, sì, e ho difficoltà di linguaggio, ma sono anche un’anima piena di idee, emozioni, desideri. Sono molto più di ciò che si vede a prima vista.
Dire “persona con disabilità” sembra una sottigliezza, ma è un cambiamento profondo. Mette al centro l’essere umano, non la sua condizione. E quando lo insegniamo ai bambini, stiamo dando loro una chiave per leggere il mondo in modo più equo e rispettoso. I bambini imparano osservando.
Se vedono che gli adulti reagiscono con imbarazzo o fastidio alla diversità, impareranno a fare lo stesso. Ma se guardano un genitore o un insegnante spiegare con calma che “quella signora cammina così perché ha bisogno di aiuto per muoversi” oppure “fa un po’ più fatica a parlare, ma possiamo ascoltarla con attenzione”, allora cresceranno con l’idea che le differenze non sono un problema: sono parte della vita.
Io li vedo, quegli angioletti che inizialmente mi guardano con stupore e poi mi salutano con un sorriso. E so che, in quel momento, qualcosa si è aperto. Che una barriera invisibile è caduta. E tutto questo può succedere se impariamo a dare loro gli strumenti giusti.
La pietà non serve: occorre un’educazione differente
Troppe volte la società guarda le persone con disabilità con uno sguardo pietoso, come se fossimo da compatire. Ma la pietà non serve. Serve l’accessibilità. Ciò che occorre è la pazienza di ascoltare chi parla con lentezza. Serve uno sguardo che vada oltre le apparenze. Educare i bambini al linguaggio inclusivo significa educarli all’empatia. A capire che ogni persona ha delle caratteristiche, dei bisogni, delle capacità diverse. Non migliori o peggiori: semplicemente diverse. E che la diversità è una risorsa, non una mancanza.
I primi a dover usare il linguaggio giusto sono i grandi. Perché i bambini assorbono tutto. Se a casa si dice “quello è un disabile”, è quello che ripeteranno. Ma se sentono “è una persona con disabilità, come noi ma con qualche difficoltà in più”, allora cresceranno con un altro sguardo. Nelle scuole ci sono già progetti meravigliosi sull’inclusione, ma serve continuità.
Serve che ogni giorno si raccontino storie diverse, si mostrino esempi positivi, si aprano spazi per il confronto. Insegnare ai bambini a usare le parole giuste è un atto rivoluzionario. Perché la vera inclusione non si costruisce solo con le rampe e gli ascensori (che comunque servono), ma con le parole. Con i gesti quotidiani. Con la cultura del rispetto. Piantando semi di civiltà per cambiare il futuro: perché solo quando impariamo a vedere l’altro per ciò che è, e non per ciò che gli manca, possiamo davvero costruire un mondo più giusto, più gentile e più umano.
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