Il caso Yara: per Roberta Bruzzone la docuserie di Netflix manca di equilibrio

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Tra i più angoscianti e controversi casi di cronaca nera in Italia degli ultimi anni, quello di Yara Gambirasio rimane tra i più emblematici. Siamo a Brembate di Sopra, provincia di Bergamo, è il 26 novembre 2010 e Yara, 13 anni, scompare dopo avere finito gli allenamenti di ginnastica ritmica. Ritrovano casualmente il suo corpo solo il febbraio seguente. Pochi mesi dopo, a giugno, viene arrestato Massimo Bossetti, un muratore senza precedenti penali, le cui tracce di DNA erano state rinvenute su un lembo degli slip della vittima.

Bossetti, unico imputato nel caso, ha sempre proclamato la sua innocenza, ma i Tribunali lo hanno giudicato colpevole e condannato all’ergastolo in tutti i gradi di giudizio.

Il caso di Yara diventa una docuserie per Netflix

Il caso è diventato una docuserie in 5 episodi dal titolo “Il caso Yara – Oltre ogni ragionevole dubbio” ed è disponibile su Netflix dallo scorso 16 luglio. Gli autori che sono gli scrittori e sceneggiatori Carlo Gabardini e Gianluca Neri, si propongono di ricostruire la vicenda e di offrire nuove prospettive che includono un’intervista inedita a Bossetti registrata nel carcere di Bollate.

Nel corso dell’intervista, Bossetti ribadisce la sua innocenza e afferma di aver subito pressioni e minacce per confessare. E’ chiaro che in questa ricostruzione la serie si pone nell’ottica di dare una nuova visione del caso, ponendo dei dubbi sulla reale colpevolezza di Massimo Bossetti.

Eppure a lavorare sul caso per lunghi anni, ci sono stati molti esperti. Tanta carta, tante indagini, tanti soldi, tante parole sono state spese in questi anni. Tra questi esperti, la Dottoressa Roberta Bruzzone, psicologa forense, criminologa e opinionista che ha davvero speso energie, professionalità e tempo su questo caso nel corso degli anni.

Le abbiamo chiesto una opinione in merito a questa serie che tanto sta facendo discutere dividendo l’opinione pubblica tra innocentisti e colpevolisti.

La docuserie Il caso Yara manca di contraddittorio

Roberta Bruzzone

“Quello che manca nel docufilm è il contraddittorio. Gli autori hanno sì coinvolto anche molte persone che hanno chiaramente una visione colpevolista, ma cercare di suggerire una chiave di lettura innocentista al pubblico è poco corretto dal punto di vista informativo, perché molti dei dubbi sollevati sono stati già risolti durante il processo.

Ad esempio, la difesa non è mai riuscita a mettere in discussione la bontà dell’accertamento genetico, confermato da quattro laboratori, tra cui uno privato a cui si rivolse la famiglia Bossetti. Tutti hanno confermato che Bossetti fosse figlio di Guerinoni. Bossetti stesso si è sottoposto al prelievo del materiale genetico in carcere, ottenendo lo stesso risultato. Quindi di cosa stiamo parlando?

Di una persona che ha mentito ripetutamente su questioni banali durante l’inchiesta. Avrebbero potuto aggiungere, magari, una puntata in più per chiarire meglio la realtà dei fatti anziché dare tutto lo spazio a lui che francamente non mi pare che sposti molto!

Anche se dal punto di vista criminologico, la parte forse più interessante della serie è proprio lui. L’atteggiamento che emerge dalla sua intervista è di un’arroganza ancora presente e una totale assenza di empatia, che evidentemente lo governa. Arriva persino a criticare i genitori di Yara, dicendo: “Se fosse stata mia figlia, avrei partecipato a tutte le udienze, perché ho notato che i Gambirasio non erano sempre presenti.

La mancanza di empatia di Bossetti

Ma come ti permetti? A prescindere che tu possa continuare a sostenere la tua innocenza – nessuno gli nega questa possibilità – ma perché criticare i Gambirasio? Questa è davvero una scelta scellerata sotto qualunque prospettiva e lo fotografa dal punto di vista personologico in maniera insuperabile.

Massimo Bossetti

Gli autori avrebbero potuto rappresentare i margini di dubbio, ma anche fornire la controparte. Avrebbero dovuto argomentare che la difesa sostiene determinate cose, ma che queste sono state affrontate e risolte nel processo. Quello che è successo in aula la gente non l’ha visto, mentre ciò che mostrano nel documentario può facilmente suggestionare chi non ha particolari competenze o capacità critiche.

In un documentario, mi aspetto che vengano presentati sia i fatti a favore sia quelli contro, per permettere allo spettatore di decidere. In questo caso, però, c’è una sovrabbondanza di elementi volti a suscitare dubbi inesistenti.

Il titolo “Oltre ogni ragionevole dubbio” non è stato affatto rispettato

Chi racconta una storia deve ovviamente includere dei contenuti, ma avrebbe potuto fare uno sforzo maggiore. Avrei ridotto il numero di giornalisti a favore di qualche esperto in più. Con tutto il rispetto per i giornalisti coinvolti, se l’obiettivo era raccontare una storia mettendo in luce il dubbio, il titolo “Oltre ogni ragionevole dubbio” non è stato affatto rispettato.

La serie non è riuscita a spingersi oltre questo limite, rimanendo ben al di qua. Si poteva fare un lavoro diverso, concentrandosi maggiormente sulla parte tecnica e ampliando l’accesso ai contenuti più specialistici.

Realizzato così, manca un equilibrio. Puoi presentare elementi che non ti convincono o su cui hai dei dubbi, ma devi anche mostrare ciò che smentisce queste posizioni, altrimenti la storia resta incompleta. E quando manca un pezzo, la gente può facilmente farsi idee confuse e sbagliate. Mentre invece i punti interrogativi non esistono nella storia vera.

Allora io dico: vogliamo raccontare delle storie? Va benissimo, però raccontiamole fino in fondo altrimenti è solo un’occasione persa”.

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Studi classici, una laurea in Lettere e Filosofia, e un tesserino dell’Ordine dei Giornalisti. Questo è il CV in estrema sintesi. Ma quello che veramente la descrive è l’amore per la musica, per i libri, il teatro e i viaggi. Ama cucinare le torte e prendersi cura delle sue piante. Odia i calcoli matematici, le percentuali e i problemi di geometria. Ama stare in mezzo alla gente ma ama ancora di più stare con se stessa. Ama la Sicilia, i suoi colori, sapori e tramonti. Ogni volta che la vita le sembra difficile, cerca di raggiungere uno scoglio, si siede e ne parla con il mare.

2 Comments

  1. Complimenti per l’articolo!
    La dottoressa Bruzzone ha certamente le sue buone ragioni per affermare quanto scritto, però rimane il fatto che tante cose non tornano… a partire dal DNA sulla manica dell’insegnante di Yara. Ma sopratutto come mai non si è indagato sul rapporto che la famiglia di Yara aveva con il boss del paese? Come mai la sua insegnate piangeva già prima che si sapesse che Yara fosse scomparsa? Come mai in quel campo non si è mai trovata Yara per 3/4 mesi e come mai i cani non hanno mai puntato verso quel campo? Come mai non si è andati a fondo nella vita del papà di Yara che ha denunciato le attività proprio del boss di paese? Come mai un tribunale ha iscritto nel registro degli indagati il PM che ha fatto deteriorare le fialette di DNA? Sarebbe interessante che vengano date delle risposte a tutte queste domande… magari proprio da una criminologa come la Bruzzone… poi non dico che la serie sia stata montata ad hoc… è pur sempre un prodotto televisivo…. Però tante domande restano…
    In ogni caso complimenti!!! Veramente interessante!!!
    Grazie

    • Grazie Marcello per i complimenti e le lunghe e ragionevoli considerazioni che porti avanti e che condivido. In verità la Dott.ssa Bruzzone sostiene che quelle risposte ci siano e che se gli autori della docuserie avessero fatto una puntata in più o avessero dato più spazio ai tecnici anziché ai giornalisti, quelle risposte sarebbero emerse. Ecco perché sostiene che nella serie non ci sia equilbrio. Manca quel contradditorio che nei tre gradi di giudizio era stato ampiamente risolto. Cosa lei dice. E non ho motivo di non crederle. La docuserie, però, lascia tante domande aperte…. Grazie ancora per il tuo contributo.

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