L’estate è ormai sempre più vicina alla sua conclusione: settembre è arrivato e, con esso, lo sguardo proiettato alla nuova stagione. Ma è impossibile non pensare agli strascichi lasciati da questi mesi caldissimi. Già, perchè, tra un gelato al tramonto e un selfie in spiaggia, è comparsa l’ennesima moda che fa discutere e che preoccupa: la Sunburn Challenge. Su TikTok e su altri social, i ragazzi si filmano e si fotografano con la pelle arrossata e dolorosamente segnata dal sole, trasformando la scottatura in un trofeo da esibire, un contenuto da far girare per accumulare like e visualizzazioni. Più il bruciore è evidente, più il corpo appare martoriato, maggiore è l’applauso digitale.
No, non si tratta solo di un gioco estivo, ma di un fenomeno che racconta molto della fragilità con cui i giovani vivono i social, del bisogno di approvazione e di quanto sottile sia la linea che separa l’intrattenimento dall’autolesionismo. La Sunburn Challenge diventa così il punto di partenza per una riflessione più ampia: quanto vale la nostra salute quando entra in competizione con la popolarità online? E perché così tante sfide virali nascono proprio dal sacrificio del corpo?
Il corpo è il nostro giardino, e la volontà il giardiniere – William Shakespeare
Un doloroso palcoscenico
I social hanno trasformato la pelle in palcoscenico e il dolore in moneta di scambio. Una pelle scottata oggi, un contenuto virale domani. Ma il corpo non è un feed che si aggiorna, è un archivio che ricorda. Le scottature non sono un filtro, sono ferite. E i dermatologi lo ripetono da anni: esporsi in modo irresponsabile al sole non è una bravata, ma un rischio reale per la salute, con conseguenze che possono andare dai danni cutanei permanenti fino a un aumento significativo delle probabilità di sviluppare tumori della pelle.
Eppure, l’attrazione verso queste sfide non si spiega solo con la moda del momento. Ha radici più profonde, nei meccanismi del cervello. Gli studi ci dicono che quando un adolescente riceve like e interazioni, si attivano le stesse aree cerebrali che rispondono al cibo, alle vincite, al piacere. È una ricompensa immediata, che rinforza il comportamento. Se la strategia per ottenerla è mostrare una scottatura, l’algoritmo applaude mentre il corpo arretra.
Troppe challenge pericolose

Ma la Sunburn Challenge non è un caso isolato. Negli ultimi anni abbiamo visto sfide ben più estreme e addirittura mortali. C’è stata la Tide Pod Challenge, in cui i ragazzi ingerivano capsule di detersivo, con conseguenze gravissime per la salute. La Benadryl Challenge, che spingeva ad assumere dosi eccessive di antistaminici fino a provocare allucinazioni e arresti cardiaci. La NyQuil Chicken, che invitava a cucinare il pollo nello sciroppo per la tosse, producendo vapori tossici e concentrazioni pericolose di sostanze chimiche. E ancora la Blackout Challenge, che ha portato diversi giovani a strangolarsi volontariamente nel tentativo di perdere conoscenza e “dimostrare coraggio” davanti alla telecamera. Ogni volta, il copione si ripete: una moda assurda che diventa virale, un’emulazione a catena, un gesto pericoloso che può lasciare cicatrici o persino spezzare vite.
Umanizzare la Rete
Il punto, allora, non è demonizzare la rete, ma restituirle proporzioni umane. A chi crea contenuti: qual è il confine tra audacia e autolesionismo? A chi guarda: siamo spettatori o complici quando lasciamo un “cuoricino” su pratiche che feriscono? Ai genitori e agli educatori: conosciamo davvero il linguaggio e il lessico delle sfide che i ragazzi respirano ogni giorno, così come conosciamo i compiti in classe? Parlare di rischio e piacere, di approvazione e identità, diventa essenziale, perché i social riscrivono ogni giorno la grammatica del corpo e del desiderio.
E allora proviamo a porci domande scomode: quanto valgono ventiquattr’ore di popolarità rispetto a un organo che ci protegge per tutta la vita? Che idea di libertà è quella che ci porta a ferirci per sentirci accettati? Quanto spazio lasciamo al silenzio di un no, quando il sì dell’applauso è a un tap di distanza? Forse la vera sfida, oggi, non è accettare l’ennesima challenge virale, ma imparare a dire no. Perché i like passano, la pelle resta. E con lei la responsabilità di trattarla per ciò che è: la nostra prima e ultima casa.
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