Parigi, 5 novembre 2025. Code oceaniche fuori dal centro commerciale BHV Maiaris per l’inaugurazione del primo negozio fisico di Shein, catena ormai nota tra i colossi del fast fashion. La folla in attesa lascia pochi dubbi circa l’attrattiva del brand, ma a fare scalpore è ciò che è accaduto pochi metri più in là: masse di manifestanti, attivisti che denunciano il modello di business dell’azienda. Non è una notizia che la politica del marchio preveda salari da fame, condizioni di lavoro misere, sfruttamento delle risorse e una produzione massiva che alimenta il ciclo incessante di consumo. Tuttavia, sono tutti fattori che gli permettono di lanciare i propri prodotti a prezzi iper-competitivi, e non possiamo stupirci se la gente ne è allettata.


Perché dovremmo preoccuparci di più riguardo a Shein?
Ho 200 euro al mese da spendere in vestiti. Con quella somma posso comprare 50 magliette da shein oppure tre magliette Made in France – Cliente 1
Ho ordinato centinaia di euro di roba da Shein online. Qualunque cosa facciano o dicano (i manifestanti), io sono qui per fare shopping, e entrerò a comprare tutto ciò che troverò e mi piacerà – Cliente 2
Sono queste le parole di alcuni clienti in coda e intervistati dal The Guardian. A fronte di questo mi sento di dire che ad essere problematico non è (solo) la recente apertura del punto vendita a Parigi, ma l’esercizio commerciale intero. Mi sarà concessa di certo una riflessione: chi può permettersi degli acquisti più etici non dovrebbe approfittare di prezzi convenienti come quelli di Shein. Soprattutto perché, come diceva Fëdor Dostoevskij (cliccate QUI per il nostro articolo a riguardo) in Delitto e Castigo:
La povertà non è un vizio
Insomma, pare che il consumatore sia portato ad acquistare fast fashion alienandosi dall’impatto che questi possano avere su scala maggiore. In altre parole, è come se il cliente si dissociasse rispetto all’influenza che esercita col suo potere d’acquisto. L’atteggiamento nei confronti della crisi è, dunque, sempre più passivo e sembra ormai che ci siamo scesi a patti. Prendiamo come esempio l’impatto che tale tipologia di consumismo ha da un punto di vista ambientale: il 60% dei prodotti acquistati viene buttato nello stesso anno in cui viene comprato. Ciò significa che se smettessimo oggi stesso di produrre capi d’abbigliamento su scala globale, avremmo comunque una quantità di vestiti sufficiente a coprire le esigenze delle prossime sei generazioni.
In conclusione è comprensibile l’indignazione per questo episodio, ma non dobbiamo dimenticare che è solo la punta dell’iceberg!
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