Gesù, spogliato dalle sovrastrutture religiose e dalle aureole dorate, è prima di tutto un uomo. Nato in povertà, cresciuto in una terra ferita e oppressa dall’occupazione romana, figlio di una famiglia semplice e artigiana. Un uomo che ha conosciuto la fatica delle mani, il sudore sulla fronte; che ha dovuto fare i conti col giudizio degli altri, le incomprensioni, i tradimenti; che ha subito il peso delle aspettative. I Vangeli, se letti con sguardo attento, non raccontano solo miracoli e parabole: raccontano la storia di un uomo che ha pianto, amato e avuto paura. Un uomo che ha sperimentato la gioia, la stanchezza, la fame, persino la rabbia.
È proprio la sua umanità a renderlo più immanente che trascendente. Gesù non sceglie di stare tra gli ultimi per compassione, ma per affinità. Per quella meraviglia di essere simili che rende tutto un po’ più speciale. Non parla dai troni, ma dalle strade polverose. Non impone, ma ascolta. Non domina, ma accoglie. Non ha servi, ma viene per servire. Un “re al contrario” che piange con chi piange, lotta con chi soffre, provando le nostre stesse emozioni.
È un uomo libero. Libero dalle convenzioni, dai compromessi, dalle apparenze. Non teme di scandalizzare pur di restare fedele alla verità. Sfida persino l’ipocrisia del potere – politico e, sì, anche religioso! – ma non lo fa con l’odio, bensì con la forza disarmante della coerenza. Quella che forse oggi più di tutto manca all’uomo.
E Cristo? È un anarchico che ce l’ha fatta. L’unico – André-Georges Malraux
L’uomo, il Figlio dell’Uomo

Gesù è umano e conosce i bisogni della sua umanità. Dopo quaranta giorni nel deserto, “ebbe fame” (Mt 4,2): un dettaglio semplice, ma rivelatore. Ha sete, sulla croce: “Ho sete” (Gv 19,28). Due espressioni nude, concrete, che raccontano la fragilità del corpo.
Ha anche paura. Nell’orto del Getsemani (Mt 26,36-46) trema. Chiede se sia possibile allontanare da lui il calice della morte, suda sangue. “La mia anima è triste fino alla morte”, dice. È il punto più basso della sua umanità. Ma proprio lì, nel buio della notte, Gesù resta. Non scappa. Resta: “Sia fatta la tua volontà”, afferma. Non si finge forte, ma trova la forza nell’affidamento. Resta fedele a sé stesso, fino in fondo.
Emozioni vere, come le nostre
Gesù si arrabbia. Non è sempre pacato come l’immaginario collettivo si aspetterebbe dal Figlio di Dio, non è la figurina placida di certe iconografie. Quando entra nel tempio, rovescia i tavoli dei mercanti (Mt 21,12-13): la sua rabbia è umana, nasce da un amore profondo per la giustizia.
E piange. Piange per Lazzaro (Gv 11,35). Piange su Gerusalemme (Lc 19,41). Le sue lacrime sono vere, piene di empatia, compassione, amore.
Ama. Ama tutti, è vero. Ma ha anche legami profondi: con Marta, Maria, Lazzaro. Con il discepolo che amava. Si lascia amare, come quando una donna gli lava i piedi con le lacrime (Lc 7,36-50). Gesù non è mai un uomo solo: vive relazioni, affetti, amicizie.
E in tutto questo – nel dolore, nella gioia, nella rabbia, nell’amore – non si tradisce mai. Non mente, non si svende, non si adatta. Dice: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), e lo dice da uomo, con le mani sporche, il corpo che sa cos’è la fatica e il cuore saldo.
Il volto più umano dell’umanità

Gesù, insomma, è stato pienamente uomo, non perdendo mai di vista la sua rotta. Non perché non abbia sofferto, ma perché il suo credo era saldo.
La sua umanità non lo allontana dal divino: lo rende accessibile, imitabile, vicino. È proprio in quel suo essere così umanamente fragile che ci mostra cosa significa davvero essere figli. Non perfetti, ma veri. Con lo sguardo rivolto alla luce.
Pensare a Gesù come uomo significa riconoscere che la grandezza non è potere o successo, ma capacità di amare, di scegliere il bene anche quando costa, di perdonare quando tutto griderebbe vendetta.
Gesù non è un mito distante. È il volto più umano dell’umanità possibile. E, forse, anche della nostra.
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