Sempre a contatto con l’arte e l’estetica sin da piccolo, il fotografo Guido Taroni ha respirato in famiglia creatività allo stato puro. La nonna è una Visconti, sorella del grande regista Luchino Visconti. Suo zio Giovanni Gastel, invece, da poco scomparso, è stato uno dei più importanti fotografi di moda italiani mentre il padre è commerciante d’arte ed eclettico collezionista. E infine, la madre è una storica dell’arte nonché esperta di teatro e musica. Insomma, è chiaro che in casa abbia respirato “bellezza e arte” a 360 gradi e che abbia sviluppato una certa sensibilità ad esse, la quale, poi, lo ha portato a divenire un eccellente fotografo di notevole fama e talento. A tal proposito, egli stesso una volta disse:
La bellezza è misteriosa, non la trovo nella perfezione, nello stereotipo. Anzi, molte volte la trovo nelle piccole cose, nella casualità e nella imperfezione. Quando osservo, non mi fermo alla prima cosa che mi attira, ma cerco di andare più in profondità, è come un esercizio per me. Cerco la bellezza nelle cose meno visibili, che si tratti di un colore, un paesaggio, un interno, una stoffa o un disegno. Tutto ciò mi emoziona e attira la mia attenzione
Guido Taroni – L’intervista
Buongiorno Guido e benvenuto su L’Opinione.com. Sei un fotografo navigato e dalla notevole esperienza, quanto credi sia cambiato la fotografia rispetto al passato?
Sicuramente è cambiata molto nel corso degli anni. Da quando è stata inventata le tecniche di sviluppo si sono aggiornate, come la moda e la visione. Oggi siamo tutti fotografi grazie anche alla maggiore disponibilità di mezzi, tant’è che ormai il mondo è subissato da immagini giornaliere con foto su Instagram, Facebook, Google e così via. Penso sempre al mio lavoro come qualcosa che debba colpire l’attenzione di un fruitore sommerso da una così grande quantità di immagini che, tra quelle, deve avere uno stimolo a soffermarsi sulla mia visione, sullo scatto da me realizzato. Lo tengo presente sempre per cercare di creare stile, immagine e una foto diversa. Non lo faccio per presunzione, o ambizione, ma come esercizio, perché credo che osservare ciò che ci circonda attraverso gli occhi di fotografo abbia un effetto diverso e conferisca una percezione diversa a chi vede, in seguito, le immagine da te scattate. Cercare di far vedere il mondo con la tua macchina fotografica, interpretare, scegliere cosa inquadrare, creare una tua visione da fotografo, uno stile. Ciò è fondamentale in una realtà frenetica come la nostra e mi ha aiutato a trovare un mio modo di vedere ciò e trasmettere emozioni.
Cosa ti ha insegnato tuo zio, il grande Gastel?
È stato un maestro di tecnica, di vita, di educazione, rispetto. Mi ha insegnato tante regole solo osservando come si comportava con la gente, con gli assistenti, come riusciva a manovrare il suo studio come il capitano di una nave. Ho imparato come funzionano tecnicamente le cose, in che modo ci si relaziona con il cliente. Aveva una grande generosità, senso dell’ironia, era un instancabile lavoratore. Quando si lavorava insieme era tutto nel grande rispetto per ciò che si faceva, c’erano tanta dedizione e pazienza nel creare gli ‘still life’ che faceva a mano ed erano molto complessi. Io sono arrivato nel passaggio tra il banco ottico e l’era del digitale, e per me è stata una grandissima occasione. Sono venuto a contatto sia con i metodi ‘antichi’, se vogliamo chiamarli così, sia con quelli più recenti.
Giovanni diceva spesso: “Non è la morte della fotografia, ma la nascita di una nuova fotografia”…
Vero. Io ho mosso i primi passi lì, ho tanti ricordi. Ero sempre insieme a lui, persino durante la pausa pranzo. Lui non mangiava, fumava e beveva caffè, ed io lo osservavo mentre ritoccava le foto, studiava come realizzare il prodotto finito. Mi piaceva molto, eravamo solo noi due, c’era silenzio e il sottofondo era il sound di Bob Dylan. Era un momento di intimità tra zio e nipote molto intenso. Mi ha dato tanto, sia umanamente che professionalmente. Al tempo stesso, però, sono soddisfatto di aver trascorso solo un anno nel suo studio. Non volevo che la sua estetica mi influenzasse troppo e non intendevo diventare una sua brutta fotocopia. All’inizio se l’era presa, ma dopo è riuscito ad apprezzarlo dal momento che sono riuscito a trovare un modo tutto mio di vedere e interpretare la realtà. Di questo era davvero fiero.
Tu ricerchi armonia cromatica mista a raffinata semplicità. In che modo trovi il giusto equilibrio?
Non so, forse con esercizio continuo anche nelle piccole cose. Mi piace arredare, per esempio, è sempre un gioco nel togliere e mettere, trovare il posto giusto, i pesi, i colori delle cose. Insomma, un po’ come inquadrare e fotografare angoli o un’intera stanza, ricreando set, piccoli angoli, mettendo insieme colori, stoffe. La stessa cosa accade per me nella fotografia. Amo fotografare interni, nature morte, pezzi di scenografie, luoghi con vita piena di emozione. Probabilmente mi sono esercitato così negli anni. Ho arredato set fotografici interni e esterni e mi ha sempre stimolato e portato a ricercare questo equilibrio così come la voglia di proporzioni, il mix di colori. Questo equilibrio che cerco è dato dalle cose semplici, poche e messe nel modo giusto affinché rimandino continuamente ad un’emozione.
Secondo te cosa è necessario fare oggi per una giusta comunicazione dei valori estetici?
A mio parere è un giudizio molto soggettivo. Se si parla di estetica e valori estetici, posso avere la mia visione e i miei canoni, ma non tutti vediamo il bello nelle stesse cose. Nella fotografia, comunque, ci sono valori estetici oggettivi.
La bellezza può salvare veramente il mondo?
Io credo di sì. La bellezza ci migliora, ci eleva vivere in essa. Personalmente, mi aiuta e mi dà gioia vedere cose belle attorno a me, siano essa natura, oggetti o collezioni. Penso che se non fossi vissuto nel bello come paesaggi e non come ricchezza, non so se poi avrei ricercato la bellezza nel mio lavoro. Io vedo nella bellezza la salvezza, la luce in tutto ciò che faccio e che mi porta e conduce nel lavoro quotidiano.
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