C’è stato un periodo della mia vita durante il quale mi ritrovavo a fissare il soffitto – Angelo Musillo
Avevo quindici, sedici anni, o giù di lì. Aspettavo che tutti quanti a casa andassero a dormire, ero meticoloso, ne dovevo essere certo, perché non potevo (anzi, non dovevo!) essere un problema per nessuno. Perciò, mi mettevo il pigiama e riponevo nell’armadio quella maschera da allegro simpaticone sempre felice che mi ero fabbricato (e no, non esistevano ancora i famosi tutorial su Tik Tok che ti spiegano “come proteggersi dalla cattiveria della gente”, quello che ti regalano “10 tips per credere in te stesso”, o ancora, altri che “ricorda quanto vali, se non lo fai tu nessuno lo farà per te”). Mi lavavo i denti e guardavo il soffitto della mia camera, in piedi, al centro della stanza. Mi limitavo semplicemente a far scendere le lacrime, senza che producessero un solo suono. Mute.
Il fenomeno degli “hikikomori” è in crescita in Italia
Quando la giornata a scuola era particolarmente difficile e i miei compagni di classe si dimostravano più st**nzi del solito, non vedevo l’ora che arrivasse il mio momento preferito della giornata, quello che aspettavo sin da che ero sveglio, il “momento soffitto”. In quei casi, avevo bisogno di un accessorio salvavita in più, il mio amico cuscino. Era proprio dentro di lui, infatti, che soffocavo le lacrime, ognuna delle quali aveva un sapore ben preciso. Avete presente quando Harry Potter prova le gelatine “Tutti i gusti più uno” e becca sempre dei sapori disgustosi? Ebbene, io ne ricordo nitidamente tre: vergogna, senso di inadeguatezza e rabbia.
Il fenomeno degli Hikikomori, dal giapponese “stare a distanza”, è più comune di quel che si pensa. Attualmente, colpisce oltre 60mila adolescenti in Italia, gli ultimi dei quali accertati soltanto di recente, e la tendenza, ahinoi, è destinata ad andare incontro ad una crescita. Tra le cause più frequenti di questo isolamento sociale, a misura di cameretta da letto, ci sono: bullismo, ansia, competizione sociale e genitori iperprotettivi (o, al contrario, per nulla protettivi), per citarne alcune. Ma cosa si può fare a riguardo?
“La chiocciola”, un film in cui chiunque potrebbe rispecchiarsi
L’altro giorno, ad esempio, ho accompagnato i miei alunni a vedere un film sull’argomento, dal momento che, purtroppo, si tratta di un qualcosa di cui non si parla ancora a sufficienza. S’intitola “La chiocciola” (potete trovarlo su Amazon Prime Video) e racconta la storia di Vittoria (nome simpatico, non c’è che dire, visto che sembra essere una ragazza vinta dalla vita quasi per l’intera durata della pellicola), quindicenne torinese che vive ormai in ritiro nella sua cameretta da più di un mese.
Niente scuola, zero amici e nemmeno un contatto con qualcuno. Per uscire dalla camera aspetta che la mamma (imprenditrice di successo nel mondo della moda) vada a dormire. Sarà solo grazie all’aiuto del nonno, Francesco, che riuscirà ad acquisire gradualmente fiducia in se stessa e, di conseguenza, nell’altro.
Una proiezione che offre moltissimi spunti di riflessione, dei quali, però, vorrei riportarvene solamente due. O perlomeno, questi due sono quelli che nell’immediato mi sono balzati alla mente.
Riflessioni su aspetti ai quali dovremmo prestare maggior attenzione
1. I genitori arano i campi dei sogni dei propri figli con mezzi (troppo) pesanti
Spesso le aspettative che i genitori, in assoluta buona fede, ripongono nei propri figli “asfaltano” i loro bisogni. A tal proposito, dopo la visione del lungometraggio e un dibattito con l’associazione Hikikomori Italia, mi sento di affermare (come già fatto sui miei social in altre occasioni) che da docente, figlio e futuro genitore che sono molto preoccupato per questo deficit gravoso che abita la nostra quotidianità e quella di molti di cui non siamo a conoscenza. La frenesia, la velocità e l’idea iper-performante che abbia della vita e che ci viene letteralmente inculcata dalla società in cui viviamo fanno sì che si perda di vista un aspetto fondamentale dei rapporti interpersonali e con se stessi: l’ascolto.
2. Dobbiamo proteggerci dalla competizione sociale aggressiva
In una realtà sociale dove (anche per via dell’eccessiva fruizione dei social media e dell’esperienza direttissima che questi offrono) c’è sempre chi è meglio di noi, più bello, più giovane, più ricco, vestito meglio, che viaggia di più, che ha più successo, che ha più followers, likes o visualizzazioni, siamo portati a pensare che qualcuno migliore di noi, in tutto e per tutto, o, in altre parole, “più” capace, ci aspetti puntualmente dietro l’angolo.
Eppure, basterebbe semplicemente sostituire quel “più” con un “altrettanto”: x è altrettanto capace, sa fare ciò che faccio io, solo che lo fa in un altro modo, un modo diverso.
Insomma, il punto qual è?

Se continuiamo a non ascoltare, e a non ascoltarci soprattutto, rischiamo solamente di alimentare una mancanza che, pian piano, divorerà noi e i nostri figli, e lascerà al nostro posto solamente una vaga ombra di ciò che siamo stati. Secondo gli ultimi dati di Hikikomori Italia, in effetti, sempre più giovanissimi sono vittima di questo fenomeno e ciò accade senza che qualcuno se ne accorga.
Marco Crepaldi, psicologo e Presidente fondatore dell’associazione nazionale “Hikikomori Italia”, che dal 2017 si occupa di contrastare il fenomeno dell’isolamento sociale giovanile in tutta Italia, ci racconta che “gli hikikomori non vogliono aiuto, non lo cercano e non lo accettano nel momento in cui gli viene proposto. […] Il loro isolamento viene vissuto come una scelta, di non voler far parte di questa società, di rifiutare le uscite con gli amici, lo sport. Successivamente, dopo questa prima fase di rifiuto di tutte le attività extrascolastiche, purtroppo questi ragazzi arrivano ad abbandonare la scuola. La fase critica è nel passaggio di grado, quindi intorno ai 15 anni”.
“Molti di questi ragazzi – continua – sentono che i genitori hanno delle grandi aspettative su di loro e per questo scappano, talvolta anche dalle famiglie. Le famiglie possono avere un ruolo più o meno impattante. Ma è un dato abbastanza chiaro che questi ragazzi hanno un rapporto spesso conflittuale con i genitori. [Quest’ultimi, ndr.] non si rendono conto di essere delle antenne che trasmettono in qualche modo l’ansia della società, inconsapevolmente li fanno fuggire anche da loro e non sanno il perché. Fino a dei casi gravissimi”, in cui i genitori “non vedono i figli isolati per anni”.
I rischi
Il rischio, spiega Crepaldi, è che questa condizione “si cronicizzi e si patologizzi”. Nella maggioranza dei casi il ritiro sociale volontario “non è legato a patologie psichiatriche, ma a un disturbo di tipo adattativo” che, però, può diventare “talmente estremo, se non supportato dalla scuola, dalla famiglia o dal tessuto sociale, che si cronicizza fino a rendere l’isolamento irreversibile”.
Mamma, papà mi aiutate a fare una cosa stasera?
Non mi piace più vedere il soffitto della mia cameretta così.
Vi ricordate quelle stelline adesive che mi aveva regalato il nonno quando ero piccolo?
Mi aiutate ad attaccarle?
Così ora ogni volta che guarderò il soffitto potrò esprimere un desiderio diverso.
Ti voglio bene, mamma.
Ti voglio bene, papà – Angelo
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