Se c’è un’immagine che suscita timore e fastidio quasi universale, è quella di un’ape che si avvicina minacciosa con il pungiglione pronto a pungerci. Eppure, ciò che per noi è sempre stato sinonimo di dolore e gonfiore, spavento e paura, per la scienza potrebbe avere tutt’altra rilevanza. Stando ai più recenti studi, infatti, sembrerebbe che il veleno di questi piccoli insetti volatili potrebbe nascondere, tra le sue molecole, un’arma efficiente per combattere il cancro. Si tratterebbe di una sua componente, la melittina, pare possedere un “potere” inaspettato. Ma quanto di questa idea affascinante appartiene alla realtà, e quanto invece al regno delle speranze ancora lontane?
Una molecola spietata, ma non troppo selettiva: la melittina
Innanzitutto, è bene precisare che la melittina rappresenta circa la metà della composizione del veleno d’api. È un piccolo peptide, ma dotato di una forza distruttiva impressionante. Secondo quanto osservato dagli esperti, essa avrebbe la capacità di perforare le membrane cellulari, compromettere i segnali vitali delle cellule tumorali e innescarne perfino la morte programmata. Non a caso, alcuni esperimenti condotti su colture cellulari e modelli animali hanno dimostrato che può rallentare la crescita di tumori al seno, alla prostata e persino del melanoma.
C’è un però. Per quanto tali proprietà lascerebbero ben sperare nel campo oncologico, la sfortuna è che tale molecola non effettua distinzioni tra cellule infette e sane. Anzi, al contrario, risulta tossica tanto per le une quanto per le altre. Insomma, è un’arma a doppio taglio, una sorta di bomba chimica biologica ancora priva di un sistema di puntamento preciso, sebbene Paracelso affermasse che:
È la dose che fa il veleno
La corsa all’ingegneria della precisione
Non andando le cose esattamente in questa direzione, alla luce delle ultime scoperte ricercatori provenienti da svariati Paesi stanno provando a imbrigliare la melittina, a confezionarla in nanoparticelle o liposomi, per far sì che questa diventi in grado di attaccare direttamente (e solamente!) le cellule tumorali, risparmiando, di conseguenza, quelle sane. In altre parole, è come se si volesse trasformare un’arma grezza in un proiettile intelligente: stessa potenza distruttiva, ma con una precisione chirurgica.
Un’impresa che, al momento, resta soltanto un’idea che deve ancora concretizzarsi. Proprio per questo, sorgono spontanee diverse domande, a cui gli scienziati stanno tentando di fornire delle risposte: se riuscissimo davvero a perfezionare questi “corrieri molecolari”, potremmo aprire una nuova era nelle terapie oncologiche? O rischieremmo comunque effetti collaterali imprevedibili, visto che il corpo umano è infinitamente più complesso di un laboratorio in vitro?
Tra scienza e mito
Per ora, non conosciamo la soluzione a suddetti quesiti. La sola cosa che ci “consola” è che la concezione del veleno d’api come cura non nasce oggi. Già nella medicina tradizionale, per esempio, soprattutto in Asia e in alcune culture europee, l’apiterapia è stata utilizzata per trattare dolori articolari, infiammazioni e persino disturbi neurologici. Ma ciò che allora era empirismo, adesso cerca conferma con il metodo scientifico.
C’è però una sottile linea rossa da non superare: trasformare una scoperta promettente in una “cura miracolosa” è una tentazione che spesso porta a truffe e illusioni. È fondamentale ricordare che, allo stato attuale, nessun farmaco approvato contro il cancro si basa sulla melittina. Perciò, parlare di veleno d’api come cura definitiva sarebbe un grave errore. Per di più, cosa conosciamo realmente del suo potenziale terapeutico? Poco, per non dire nulla, specialmente se pensiamo all’infinità di cure che abbiamo già sotto gli occhi e delle quali non conosciamo seriamente niente.
Per non parlare del fatto che su tali caratteristiche incide fortemente la biodiversità, una biodiversità spesso minacciata dalle attività dell’uomo. Pertanto, alla luce di un siffatto quadro, proteggere le api non significa solo salvaguardare la produzione di miele o l’impollinazione dei campi, ma anche (e forse soprattutto) mantenere intatto un patrimonio di molecole terapeutiche che non abbiamo ancora compreso appieno.
Pensate se un giorno dovessimo dire che la puntura di un’ape può salvare una vita, come cambierebbe la nostra percezione di questi piccoli insetti? Continueremmo a vederli come fastidiosi intrusi estivi o finalmente come alleati, custodi di un segreto che potrebbe cambiare la storia della medicina?
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