Piramo e Tisbe: la mitologica (e tragica) vicenda amorosa alle origini del frutto del gelso

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Piramo e Tisbe

A molti sarà capitato, passeggiando per le campagne d’Italia nei mesi estivi, d’imbattersi in alberi di gelso nero e apprezzarne la dolcezza delle bacche; ma forse in pochi conoscono la vicenda mitologica di Piramo e Tisbe legata a questo frutto, che viene narrata da Ovidio – celebre poeta latino vissuto a cavallo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C. – all’interno delle Metamorfosi e che nella storia della letteratura ha incarnato un vero e proprio topos, tanto da aver sedotto autori come Dante e Boccaccio, Cervantes e Shakespeare.

Una notte, mentre Tisbe avanzava furtiva con il volto velato,
una leonessa dalla bocca insanguinata per aver sbranato un bue
si avvicinò alla fontana per placare la sete – Ovidio, Metamorfosi – Libro IV

La leggenda di Piramo e Tisbe

Nell’antica città mesopotamica di Babilonia, in un tempo senza tempo, lontano e perso nella memoria, quale è quello del mito, due giovani vicini di casa, Piramo e Tisbe, ardevano d’amore l’uno per l’altra. Le famiglie ostacolavano aspramente l’unione; eppure, di giorno in giorno crescevano i loro sentimenti e il loro rapporto, fatto di dolci sussurri e parole mormorate attraverso la crepa nel muro comune alla casa di lei e quella di lui. Da quella fessura ogni notte si salutavano e, attraverso di essa, l’indomani riprendevano i discorsi amorosi.

Incapaci di sostenere ancora a lungo la (vicina) lontananza, organizzarono una fuga notturna. Il luogo dell’incontro era un alto gelso, carico di abbondanti frutti bianchi, accanto al quale stava una fonte d’acqua. Tisbe si presentò per prima. Sedeva sotto le fronde dell’albero, avvolta nella calma della notte, nell’attesa che l’arrivo del suo Piramo desse avvio alla loro vita insieme, quando i raggi della Luna illuminarono il profilo di una leonessa che beveva alla vicina fonte.

Bacche nere di un amore acerbo

Tisbe corse a ripararsi in un antro non lontano, perdendo nella fuga il velo che le copriva la testa. Soddisfatta la sete, l’animale dilaniò il velo, macchiandolo del sangue dei buoi che poco prima aveva divorato e che ancora grondava dalle fauci, e si allontanò nel buio. Giunse Piramo, che subito notò le orme della belva e il velo insanguinato. Si sentì assalito dalla disperazione per Tisbe, che credeva morta, dal senso di colpa per aver tardato a quell’incontro da lui proposto, e, baciando l’indumento della ragazza, tra le lacrime che gli rigavano il volto, sguainò la spada e la conficcò nel fianco.

Il sangue zampillava copioso verso l’alto, bagnando i candidi frutti del gelso, che rapidamente si tinsero di porpora. Il tempo passava, ma Tisbe ancora sperava che Piramo si presentasse all’appuntamento. Uscì allora dal suo riparo, ma, sotto l’albero dove avrebbe dovuto trovare la felicità, vide il corpo dell’amato riverso a terra. Per un’ultima volta gli occhi di Piramo si aprirono, abbracciarono quelli di lei e si abbandonarono all’oblio. Tisbe raccolse l’arma da terra e scelse il medesimo destino, ma solo dopo aver pregato l’albero di conservare quelle bacche nere come simbolo di lutto, eterno ricordo di un amore acerbo che si sciolse nel sangue. La compassione degli dei accolse la preghiera della fanciulla: ancora oggi il frutto, quando giunge a maturazione, è scuro.

Una storia che ha avuto grande fortuna letteraria

La tragica vicenda dei due giovani babilonesi, che riecheggia anche a orecchie non specializzate i toni drammatici dell’amore tra Romeo e Giulietta, ha avuto grande fortuna letteraria nei secoli, sia nella forma di citazione, sia come archetipo mitologico di innamoramenti ostacolati, infelici, finanche suicidi.

I riferimenti e le citazioni

Nel primo caso rientra Dante, che nel canto XXVII del Purgatorio accenna all’ultimo sguardo rivolto a Tisbe da Piramo e al cambiamento di colore dei gelsi. A seguirlo a ruota Shakespeare, che in Sogno di una notte di mezza estate porta in scena, in un eccelso esempio di metateatro, la rappresentazione da parte di un gruppo di artigiani ateniesi, in occasione delle nozze dei Teseo e Ippolita, della tragedia di Piramo e Tisbe, dismettendone, tuttavia, l’allure lacrimevole per abbracciare uno stile marcatamente comico. E ancora Cervantes che, nel Don Chisciotte, fa paragonare da Cardenio i genitori della sua amata Lucinda, i quali premono per il matrimonio con Fernando, a quelli della “tanto cantata” Tisbe, benché nello scrittore spagnolo la vicenda romantica abbia, contrariamente alla novella latina, un lieto epilogo di ricomposizione degli amanti.

Archetipo mitologico

Nel secondo caso rientra a pieno titolo, come già detto, la storia del Montecchi e della Capuleti, così come quella assai più scanzonata e irriverente (e dall’esito felice) narrata nel Decameron di Boccaccio all’interno della quinta novella della settima giornata, nella quale una moglie, costretta in casa dalla gelosia del marito, intrattiene una relazione adulterina col vicino proprio attraverso la fessura di un muro comune.

Insomma, tutto ciò dimostra come la potenza del mito antico, e delle storie che esso narra, riesca a superare la prova del tempo e a permeare di poesia anche gli elementi del quotidiano.
Ogni volta, dunque, che mangerete un gelso nero e vi inebrierete dei suoi aromi, rivolgete un pensiero a Piramo, Tisbe e al loro amore, che, in una qualche dimensione ultraterrena, forse, sopravvive ancora.

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Classe 1997, abruzzese di nascita e bolognese d'adozione. La passione viscerale per il greco e il latino l’ha portata a conseguire una laurea in "Filologia, Letteratura e Tradizione Classica". Eclettica ascoltatrice di musica, avida divoratrice di serie tv, balla il tango (non benissimo), pratica yoga per sentirsi radicata e legge libri per vivere mille vite. Scrive di ciò che la affascina e incuriosisce, nella speranza che anche i lettori possano esserne ammaliati a loro volta

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