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Squid Game, la vera storia dietro al mito distopico della serie Netflix tra orrori e vittime

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Squid Game

Sono passati ormai quasi 4 anni da quando Squid Game, letteralmente “Il gioco del calamaro” (praticato dai bambini in Corea del Sud fin dagli anni Settanta), è sbarcato su Netflix con le sue prime due stagioni. Sebbene in Italia sia arrivata inizialmente in sordina (per i primi mesi non era disponibile neanche il doppiaggio in italiano), la serie è divenuta in poco tempo un vero e proprio fenomeno mondiale, spianando la strada ad un numero crescente di prodotti di genere distopico nel periodo post-pandemico e ponendosi come uno degli esempi più recenti della cosiddetta Korean Wave, ossia dell’incremento della diffusione globale della cultura di massa sudcoreana.

Un’infinità di video dedicati e miliardi di visualizzazioni sulle piattaforme virtuali, flash mod per le strade delle più grandi città del mondo e reality show ispirati, una campagna pubblicitaria su larga scala mai vista prima e un merchandising di smisurate proporzioni, un impatto positivo sull’economia sudcoreana e numerose sfide social che hanno preso vita dalla trama originale. Tutto questo, e molto altro ancora, ha accompagnato la crescente popolarità di quello che si è consacrato come il format televisivo del momento, unitamente all’accoglienza più che favorevole della critica internazionale.

Credit: web

Eppure, esistono alcuni retroscena che forse soltanto in pochi conoscono e che, per quanto irreali possano sembrare, risulterebbero essere purtroppo veri e getterebbero un’ombra sul Paese al quale la storia si è ispirata.

I fatti coreani che hanno contribuito alla nascita di “Squid Game”

Come ben sappiamo, la trama di Squid Game ruota intorno ad un gruppo di persone che, trovandosi in situazioni di grave difficoltà e di disagio economico, vengono adescate da un “reclutatore” e convinte, in maniera del tutto ingannevole, a partecipare ad una serie di giochi per bambini con la promessa di un premio in denaro piuttosto consistente. Una prospettiva allettante, e sotto determinati aspetti perfino divertente, se non fosse che i concorrenti designati scoprono che il costo per vincere è la loro stessa vita soltanto a gara iniziata.

La realtà economica sudcoreana

Tralasciando per un attimo la brutalità e la distopia della rappresentazione nonché quei risvolti di trama di cui chiunque sarà già a conoscenza, perlomeno per quel che riguarda gli episodi pubblicati fino ad ora, la serie tv di Hwang Dong-hyuk mette in scena un’iperbole della lotta per la sopravvivenza in un apparato sociale oppresso dalle disuguaglianze, quella stessa lotta tipicamente umana a cui di umano, però, alla fine non rimane proprio un bel niente. Della serie, si è disposti a rischiare qualunque cosa, vita inclusa, per cambiare il proprio destino e chiunque si interponga fra noi e il nostro obiettivo deve essere necessariamente ELIMINATO.

Credit: Netflix

Dunque, è evidente come la lotta di classe e la scalata sociale, aspetti fortemente attuali nella società odierna della Corea del Sud, in aggiunta alla ben più ampia riflessione sul capitalismo, siano tematiche preponderanti. A ciò si affiancano il divario di classe sociale, un’accurata raffigurazione del classico leitmotiv del “povero alla mercé del ricco” (nel nostro caso, i giocatori si potrebbero equiparare a “cavalli” privi di alcun valore se non quello attribuito loro dalle scommesse e dalle puntate dei cosiddetti “VIP”), della disparità di debito che caratterizzano l’assetto socio-economico sudcoreano e la corruzione (fisica e spirituale) che da sempre alberga nell’animo umano portata sullo schermo mediante lo svilimento di “giochi innocenti per bambini” in qualcosa di oscuro e mortale.

La crisi del 2008

Un esempio concreto nella realtà, confermato dal regista in persona, lo si può ravvisare nell’aumento del debito di qualche anno fa, più precisamente del 2008, che spinse il Governo all’introduzione di restrizioni sulla concessione di prestiti per cercare di impedire che le persone esacerbassero ulteriormente la situazione. Sfortunatamente, la manovra portò al risultato opposto, costringendo molti a contrarre prestiti ad alto interesse per estinguere quelli precedenti e creando un effetto a cascata. Difatti, i coreani che si ritrovarono in situazioni del genere, e per questo spesso chiamati “classe del cucchiaio di terra”, si avventurarono in operazioni rischiose come investimenti ad alto rischio, cripto-valute o gioco d’azzardo, sperando di ottenere un grande guadagno, ma finendo per accumulare altri debiti.

Credit: Netflix

L’uso delle tute verdi in Squid Game, in effetti, è un’ulteriore allusione alla connotazione di tali individui chiamati baeksu (백수), termine che si traduce approssimativamente con “mani bianche” e che indica le persone che non hanno raggiunto l’indipendenza finanziaria, venendo di conseguenza discriminate dalla società e trascorrendo la loro vita senza una prospettiva lavorativa. Un’accezione che si riscontra perfino nella definizione di “rifiuti” attribuita ai partecipanti ai giochi dal reclutatore all’inizio della seconda stagione, la quale, a sua volta, potrebbe corrispondere ad una reinterpretazione “metaforicamente distopica” (ma non troppo!) di alcuni fatti inquietanti che sconvolsero la Corea del Sud negli anni ’80.

Gli orrori sudcoreani e il re-branding di una società al limite

In quel periodo, infatti, il Paese era al culmine di una trasformazione economica e culturale straordinaria. Stava emergendo come una potenza industriale e tecnologica, e cercava di affermare la propria identità e prestigio sulla scena internazionale. Per di più, l’imminente organizzazione dei Giochi Asiatici del 1986 e delle Olimpiadi di Seul del 1988 portarono i sudcoreani in fibrillazione dal momento che rappresentavano un’opportunità irripetibile per ripulire la propria immagine agli occhi del mondo.

Per prepararsi a questi eventi, quindi, il Governo intraprese ambiziose iniziative di re-branding e riqualificazione urbana. Le autorità si impegnarono a migliorare le infrastrutture, a promuovere l’immagine di una Corea del Sud prospera e innovativa, e a ripulire le città, spesso con metodi controversi. In particolare, nel 1981 il neo-eletto Presidente ChunDooHwan emanò l’ordine di “reprimere il vagabondaggio” mediante l’istituzione di centri di assistenza sociale nelle grandi città. Le persone sarebbe dovute rimanervi per un anno, ricevendo nel frattempo una formazione, per poi essere reinserite nella società.

Tuttavia, la triste verità era ben diversa e tutt’altro che “lodevole”. Stando ai report dei media asiatici (ndr.), le persone venivano rapite dalle strade per essere rinchiuse nelle strutture e solamente meno del 10% di queste erano davvero senzatetto. Al contrario, si trattava il più delle volte di figure scomode, avversari politici e soggetti (di solito anche bambini!) affetti da disabilità. La maggior parte di essi furono liberati nel 1987, ma solo dopo anni di violenze e soprusi.

Brother’s Home

Il più grande di questi centri era Brother’s Home. Al suo apice, la struttura contava circa 4000 detenuti. Al contrario di quel che la propaganda aveva propinato alla popolazione, si trattava di un autentico campo di concentramento, comandato da Park In-keun. La sua strategia consisteva nel far sì che i detenuti abusassero di altri detenuti per sopravvivere. Insomma, un ambiente fatto di soprusi, lavori forzati e condizioni disumane che richiamano le dinamiche oppressive e disumanizzanti presenti proprio in “Squid Game”.

Ufficialmente 657 persone morirono tra quelle mura, ma è assai probabile che il numero sia molto più alto. Le autorità arrestarono Park In-keun nel 1987, con le accuse di appropriazione indebita e confinamento illegale. Per aver sottratto milioni di dollari di sussidi governativi fu condannato a due anni e mezzo di carcere, mentre non rispose mai delle violazioni dei diritti umani.

Perciò, una storia sicuramente da record essendo arrivata al primo posto in ciascuno delle nazioni in cui Netflix è disponibile, ma siamo realmente sicuri che sia tutto oro quello che luccica?

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Classe 1996, studente laureando in “Lingue, Culture, Letterature e Traduzione” presso l’Università di Roma ‘La Sapienza’. Appassionato di scrittura, danza, cinema, libri, attualità, politica, costume, società e molto altro, nel corso degli anni ha collaborato con diversi siti d'informazione e testate giornalistiche (cartacee e digitali), tra cui Metropolitan Magazine, M Social Magazine, Spyit.it, Art&Glamour Magazine ed EVA3000. Ha scritto alcuni articoli per la testata giornalistica cartacea ORA Settimanale. Ha curato progetti in qualità di addetto stampa, ultimo dei quali "L'Amore Dietro Ogni Cosa" (NewMusic Group, 2022). Attualmente, è redattore presso la testata giornalistica Vanity Class e caporedattore per L'Opinione.

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