Giornata Internazionale per il Diritto alla Verità sulle gravi violazioni dei Diritti Umani: l’attualità del caso Oscar Romero

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Diritto alla Verità Diritti Umani

Molti mi dicono che dovrei fare attenzione, che non dovrei espormi, ma sento che finché cammino nell’adempimento del mio dovere, che mi muovo liberamente per essere un pastore della comunità, Dio è con me e se mi accade qualcosa, allora sono pronto a tutto – Romero

La Giornata internazionale per il diritto alla verità sulle gravi violazioni dei diritti umani e per la dignità delle vittime si celebra ogni anno il 24 marzo, data scelta dalle Nazioni Unite in ricordo dell’arcivescovo salvadoregno Oscar Arnulfo Romero, ucciso il 24 marzo 1980 per aver difeso i diritti umani dei più vulnerabili – perché riteneva che tale adempimento fosse un “suo dovere”.

Il sacrificio di Romero e la fallacia della legge del più forte

Nel video si può vedere una breve testimonianza di Romero, del coraggio che contraddistingue coloro che credono nell’umanità.

Credit: YouTube

Partiamo dal sacrificio di Romero, dal suo “senso del dovere” – ordinato al dovere del servizio a Dio e al suo popolo, – per sostanziare la celebrazione di una Giornata Internazionale dell’ONU, declinata ai Diritti Umani, e nello specifico al Diritto alla Verità che si cela dietro alle gravi violazioni dei Diritti Umani. Per dare un senso di coerenza e prospettiva di futuro alla giornata, prendiamo fiato perché ci aspetta un percorso intriso di ingiustizie. Solo così potremo guardare con fiducia alla giornata Giornata Internazionale per il Diritto alla Verità sulle Gravi Violazioni dei Diritti Umani.

Occorre attingere alle energie umane più profonde; occorre, aver presente cosa ha significato la tragedia dei desaparesidos, e per non farci mancare nulla, occorre avere gli occhi puntati al presente, alle mosse della Commissione Europea rispetto al riarmo degli stati nazionali che costituiscono l’Unione Europea.

Per inciso, la scelta della Commissione Europea di riarmare gli stati europei con 800-milardi di euro può essere interpretata come una reazione disperata (e forse è anche questo), ma forse è più utile inquadrarla come un tentativo di “reagire” rispetto a qualcosa che non si è riusciti a controllare, e che si è ben lontani dal controllare. Ma cos’è questa cosa così difficile che sfugge al dominio della politica? Quale legge sembra avere la meglio?

Charles Darwin circa 1875/Credits: Getty Images / General Photographic Agency.

Una concezione limitante

La teoria dell’evoluzione della specie limita il nostro modo di concepire l’essere umano se viene interpretata in maniera puramente materialistica, riducendo la nostra esistenza a un semplice processo biologico e adattativo privo di significato intrinseco.

Tuttavia, se considerata in un’ottica più ampia, essa può essere vista non solo come un fenomeno fisico, ma anche come un processo di crescita e trasformazione che coinvolge dimensioni più profonde, comprese quelle culturali, etiche e persino spirituali. La domanda centrale diventa quindi: siamo solo il prodotto di mutazioni genetiche e selezione naturale, oppure l’evoluzione include anche un cammino di consapevolezza, crescita interiore e trascendenza?

Darwin non può spiegare i diritti umani

I Diritti Umani sono un costrutto sociale evoluto che non può essere spiegato dalla legge darwiniana secondo cui sopravvive il più forte.

Immagine generata dall’intelligenza artificiale che vede affiancate due visioni dell’umanità, a sinistra materialista, a destra spirituale.

Se tale legge applicata al mondo animale fosse vera anche per la specie Homo Sapiens sapiens, per assurdo, la nostra civiltà sarebbe fondata sugli eserciti nazionali e sui carri armati, sulla forza bruta.

Secondo le ultime rivelazioni in Italia di carri armati ne funzionerebbero solo 50. Siamo deboli? No, forse abbiamo dedicato gli ultimi 80-anni a crescere come popolo, abbiamo coltivato il PIL, il Welfare, lo Stato di Diritto, la Diplomazia, l’Arte del Dialogo, la Cooperazione e la Solidarietà. Dobbiamo vergognarci per aver creduto che i carri armati fossero oggetto da museo militare? Anche qui la risposta è “No”.

Forse sono questi i valori che hanno sorretto sino ad ora questo agglomerato di nazioni, l’Occidente, Rimarcare un’ovvietà a volte aiuta nei ragionamenti. Su cosa dovremmo investire con insistenza per venir fuori dall’incubo di un futuro militare?

La natura spirituale dell’uomo ha un valore ordinante

“Story of Civilization” by Will e Ariel Durant/Credit: Wikipedia.org.

A leggere l’opera monumentale di Will Durant e di sua moglie Ariel, s capisce bene che le culture vinccenti, quelle che hanno avuto la meglio e sono resistite più di altre, sono quelle che hanno intuito e si sono fondate sulla natura spirituale dell’uomo, quelle che hanno glorificato ciò che c’è di buono nell’uomo. Cose come l’arte, il pensiero, l’ingegno, il bene comune – giammai quelle che hanno prevaricato con l’uso della forza e della violenza. Si possono avere opinioni contrastanti a riguardo, eppure la storia è lì da leggere (e interpretare). La natura spirituale dell’uomo ha un valore ordinante, non solo per quanto attiene alla scala valoriale, ma alla sopravvivenza stessa delle culture.

I Diritti Umani, questo sconosciuto, sono il risultato di un approccio spirituale all’uomo. Sono stati codificati da uomini e donne dopo la Seconda guerra mondiale nella Dichiarazione Universale dei Diritti umani, con lo scopo di evitarci una terza apocalittica guerra mondiale.

Ecco svelato il segreto che ha guidato anche l’opera di Romero (e giganti simili), la consapevolezza che in quegli ultimi, in ognuno di loro, c’era l’istanza di un essere spirituale, sempre portatore di Diritti inalienabili, ben più forte dei tiranni.

Il Diritto alla Verità è l’invocazione a credere nell’Umanità

I Diritti Umani sono un invito a riflettere sulla necessità di ordinare il nostro orizzonte di senso, e il nostro progetto di convivenza su questo pianeta, a un necessario “riarmo di intelligenze”, un impegno a guardare in primo luogo all’intelligenza delle istituzioni internazionali, ma anche alla caducità dei nazionalismi, delle maggioranze, e degli stati nazionali. Fuor di retorica, l’unica bandiera legittima che può essere sventolata su questo pianeta è quella della convivenza pacifica, della cooperazione internazionale, della solidarietà, del rispetto delle minoranze. Tutte le altre bandiere andrebbero ripulite dalle manipolazioni politiche e dalla retorica.

Una ricorrenza da tenere stretta

Ci sono voluti 30 anni per istituire la Giornata Internazionale per il Diritto alla Verità sulle gravi violazioni dei Diritti Umani, perciò teniamocela cara. La giornata è stata proclamata formalmente dall’Assemblea Generale ONU il 21 dicembre 2010, trent’anni dopo l’uccisione di Romero, con l’intento di onorare la memoria delle vittime di violazioni sistematiche dei diritti umani e rendere omaggio a coloro che hanno sacrificato la vita per promuovere i diritti umani.

In particolare, la risoluzione istitutiva riconosce il contributo di Mons. Romero, che denunciò le violazioni durante il conflitto in El Salvador e fu assassinato proprio a causa del suo impegno.

I “Desaparesidos”: gli Scomparsi di Argentina e Cile

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1977-83: Le madri di Plaza de Mayo protestano contro le sparizioni in Argentina/Credit: web

Sin dagli anni precedenti, il diritto alla verità era emerso nel contesto delle sparizioni forzate in America Latina: di fronte a migliaia di persone scomparse in paesi come Argentina e Cile negli anni ‘70, l’ONU istituì nel 1980 un Gruppo di Lavoro sulle Sparizioni Forzate con mandato universale, per far luce sulla sorte dei desaparecidos. Questo sfondo storico ha portato a consolidare, a livello internazionale, l’idea che i familiari e le comunità colpite abbiano il diritto di conoscere la verità su gravi crimini del passato.

Dal punto di vista giuridico internazionale, il “diritto alla verità” si è progressivamente affermato come un diritto sia individuale che collettivo, correlato al dovere statale di ricordare. Studi delle Nazioni Unite hanno chiarito che tale diritto è inalienabile e autonomo: spetta alle vittime e ai loro familiari conoscere pienamente le circostanze dei crimini subiti – ad esempio, nel caso di sparizioni forzate, sapere che fine hanno fatto i propri cari – e spetta allo Stato l’obbligo di indagare efficacemente e fornire rimedi e riparazioni.

Istituzione del Consiglio per i Diritti Umani

A marzo 2006 l’Assemblea generale dell’ONU istituiva il Consiglio per i Diritti Umani e l’Alto Commissario per i Diritti Umani, con il compito di riferire all’Assemblea ONU.

Credit: YouTube

Nel 2009, un rapporto ONU ha raccolto le best practices per dare attuazione a questo diritto, tra cui l’importanza di preservare archivi e documenti sulle violazioni, attuare programmi di protezione per testimoni e altri attori coinvolti, e utilizzare anche strumenti come la genetica forense per identificare le vittime.

In molti ordinamenti questo concetto ha trovato eco: ad esempio, la Corte Interamericana dei Diritti Umani ha riconosciuto il diritto alla verità delle famiglie delle vittime di stragi e sparizioni, imponendo agli Stati misure di chiarimento dei fatti come parte del diritto alla giustizia.

Rilevanza e meccanismi per verità e giustizia

Nel quadro del diritto internazionale contemporaneo, il diritto alla verità riveste un ruolo fondamentale nei processi di giustizia di transizione e di lotta all’impunità. Esso infatti favorisce la riconciliazione e una pace duratura: conoscere la verità sui crimini passati è ritenuto un pre-requisito per costruire una società fondata sullo stato di diritto e prevenire il ripetersi di atrocità.

La Giornata internazionale in questione sottolinea proprio questa rilevanza, promuovendo iniziative di sensibilizzazione e commemorazione volte a preservare la memoria storica delle violazioni e delle vittime. Gli strumenti per garantire verità e giustizia alle vittime sono molteplici.

Da un lato vi sono le indagini giudiziarie e i processi (nazionali o internazionali) volti ad accertare i fatti e punire i colpevoli; dall’altro lato, sono cruciali i meccanismi non giudiziari come le commissioni per la verità. In diversi paesi, commissioni indipendenti hanno raccolto testimonianze e documentazione sugli abusi (si pensi al rapporto Nunca Más in Argentina o alla Commissione per la Verità e Riconciliazione in Sudafrica), offrendo un resoconto ufficiale delle violazioni e raccomandazioni per riparazioni. Tali organi aiutano a soddisfare il diritto delle vittime di sapere cosa è accaduto e stabiliscono un record storico che impedisce la negazione del passato.

Allo stesso tempo, le azioni penali – quando possibili – sono essenziali per consegnare i responsabili alla giustizia. In questo senso, il diritto penale internazionale (ad esempio attraverso le corti internazionali) contribuisce a far emergere la verità: tribunali come quelli per l’ex Jugoslavia o per il Ruanda hanno raccolto prove, ascoltato centinaia di testimoni ed emesso sentenze che ricostruiscono ufficialmente i fatti, creando un importante archivio storico e giudiziario.

La Corte Penale Internazionale

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La sede della Corte Penale Internazionale/Credits: Di Hypergio – Opera propria, CC BY-SA 4.0, Wikimedia.org

La Corte Penale Internazionale (CPI), avviando indagini e processi, persegue i colpevoli di crimini atroci, e al contempo fa luce su eventi che spesso erano stati occultati, fornendo riconoscimento alle vittime.

Meccanismi come il diritto delle famiglie dei desaparecidos di accedere a archivi e informazioni, programmi di protezione testimoni, e iniziative di memorializzazione (musei, monumenti, giornate commemorative come questa) sono tutti strumenti che concorrono a garantire il diritto alla verità e ad affermare la dignità delle vittime.

Il “declino” del diritto internazionale e l’ostilità verso la giustizia internazionale

Attacchi alle istituzioni internazionali e delegittimazione della CPI

Negli ultimi anni, studiosi e osservatori hanno evidenziato un preoccupante “scivolamento” del diritto internazionale, ossia un indebolimento del rispetto e dell’autorità delle norme e istituzioni globali, in particolare nel campo dei diritti umani e della giustizia penale internazionale.

Un aspetto emblematico di questo fenomeno è il comportamento di alcuni governi che hanno attivamente cercato di delegittimare la Corte Penale Internazionale (CPI) e altri organi giudiziari sovranazionali. Tali governi, spesso contrari a vincoli esterni sulla propria sovranità, hanno messo in atto strategie di boicottaggio, mancata cooperazione o addirittura aperta ostilità verso la CPI – il tribunale con sede all’Aia istituito dallo Statuto di Roma (1998) per perseguire crimini internazionali come genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra.

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Il 17 luglio 1998 veniva approvato The Rome Statute, il trattato che poneva le basi per istituire la CPI/Credit: web

Il modello di impunità degli Stati Uniti

La delegittimazione della CPI si è manifestata attraverso varie azioni concrete. Ad esempio, gli Stati Uniti – pur non avendo mai ratificato lo Statuto di Roma – hanno condotto una forte campagna anti-CPI.

Già nei primi anni 2000 Washington stipulò accordi bilaterali per escludere la consegna di cittadini americani al tribunale e approvò leggi per tutelare i propri militari da eventuali procedimenti. Più di recente, sotto l’amministrazione Trump, l’ostilità è giunta al culmine: nel giugno 2020, il presidente Donald Trump ha emesso un ordine esecutivo autorizzando sanzioni economiche e restrizioni di viaggio contro i funzionari della CPI coinvolti in indagini sugli Stati Uniti o sui loro alleati.

Queste mosse senza precedenti – motivate dal fatto che la CPI stava esaminando possibili crimini di guerra compiuti in Afghanistan (anche da parte di militari USA) e la condotta di Israele in Palestina – miravano chiaramente a intimidire i giudici e i procuratori internazionali, mettendo a rischio la loro indipendenza. La decisione di Trump suscitò un’ondata di reazioni contrarie: 79 paesi (tra cui alleati occidentali come Francia, Germania e Regno Unito) firmarono immediatamente una dichiarazione congiunta a sostegno “incrollabile” della CPI e della sua integrità, denunciando i tentativi di minarne l’operato.

L’Ungheria di Orbán segue la scia del modello di irresponsabile impunità degli USA

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Primo ministro ungherese Viktor Orbán/Credit: web

Tuttavia, alcuni governi si sono schierati con l’iniziativa americana: il primo ministro ungherese Viktor Orbán, ad esempio, espresse approvazione per le sanzioni USA, auspicando che anche l’Ungheria rivedesse la propria partecipazione alla CPI e affermando che “spirano nuovi venti nella politica internazionale” innescati da quella che definì la “tromba d’aria Trump”.

Questo episodio evidenzia come leader di orientamento nazionalista abbiano cercato di erodere la legittimità della giustizia internazionale, presentandola come un intralcio politico.

Diritto alla Verità e Diritti Umani in Sudafrica

Anche altri governi hanno ostacolato attivamente i procedimenti della CPI quando questi li riguardavano da vicino. L’esempio del Sudafrica è emblematico: nel 2015 Pretoria si rifiutò di arrestare il presidente sudanese Omar al-Bashir – ricercato dalla CPI per genocidio e crimini di guerra in Darfur – durante una sua visita ufficiale, sostenendo di non avere obbligo di farlo poiché Bashir era un capo di Stato in carica e di uno Stato non aderente alla CPI. Le autorità sudafricane argomentarono che lo Statuto di Roma non poteva prevalere sul diritto interno sudafricano che garantiva l’immunità ai capi di Stato in carica.

Questo scontro portò il governo sudafricano ad annunciare l’intenzione di ritirarsi dallo Statuto di Roma nel 2016, in segno di protesta verso la Corte. Sebbene tale ritiro sia stato poi bloccato dalla giustizia interna per vizi procedurali, il caso segnò un punto di svolta nel rapporto tra l’Africa e la CPI. In quegli stessi anni, infatti, si acuivano le critiche di diversi leader africani secondo cui la CPI avesse un pregiudizio anti-africano (dalla sua istituzione fino al 2016 aveva perseguito quasi esclusivamente casi in Africa).

Diritto alla Verità e Diritti Umani in Gambia, Kenya e Burundii

Nel 2016 il Gambia arrivò a bollare la CPI come “International Caucasian Court” (Corte dei bianchi) accusandola di razzismo, mentre il presidente keniota Uhuru Kenyatta – lui stesso incriminato dalla CPI per violenze post-elettorali e poi prosciolto per mancanza di prove – utilizzò la tribuna dell’Unione Africana per invocare una “roadmap per il ritiro” collettivo dei paesi africani dalla Corte.

Il Kenya e altri governi contestavano in particolare l’articolo 27 dello Statuto di Roma, che nega qualunque immunità alle cariche ufficiali: secondo Kenyatta, perseguire capi di Stato in carica metteva a rischio la stabilità e la capacità di governo, e pertanto l’Africa doveva rifiutare questo principio.

In Africa solo il Burundi ha completato finora il recesso dalla CPI (nel 2017), ma le minacce di ritiro e le accuse di faziosità hanno rappresentato un chiaro tentativo politico di delegittimare l’operato del tribunale agli occhi dell’opinione pubblica locale.

Rodrigo Duterte/Credit: Foto d’archivio / AP.

Dritto alla Verità e Diritti Umani nelle Filippine

Un altro caso concreto è quello delle Filippine: il presidente Rodrigo Duterte, autore di una sanguinosa “guerra alla droga” con migliaia di morti extragiudiziali, ha reagito all’apertura di un esame preliminare della CPI sul suo operato annunciando il ritiro del paese dallo Statuto di Roma. Nel 2019 Manila è formalmente uscita dalla CPI, interrompendo la cooperazione proprio mentre si indagavano le uccisioni di massa avvenute durante la presidenza Duterte.

L’ex presidente filippino ha più volte insultato e sfidato la Corte con discorsi carichi di invettive, dichiarando di non riconoscerne l’autorità e vantandosi di poter eludere la giustizia internazionale. Solo dopo la fine del suo mandato le indagini sono riprese: infatti, nel 2025 Duterte è stato clamorosamente arrestato su mandato della CPI (grazie a un’operazione Interpol con il nuovo governo filippino) e trasferito all’Aia per rispondere di crimini contro l’umanità.

Questo sviluppo senza precedenti – Duterte è il primo ex capo di Stato asiatico a comparire davanti alla CPI – dimostra al contempo la persistenza della giustizia internazionale e quanto fossero gravi i tentativi del suo governo di ostacolarla tramite il ritiro e la retorica ostile.

Diritto alla Verità e Diritti Umani in Russia

Vladimir Putin/Credit: web

Infine, tra le maggiori potenze, la Russia ha assunto una posizione di aperta sfida verso la CPI. Mosca non ha mai ratificato lo Statuto di Roma e, a seguito di critiche della Corte sulle sue azioni in Crimea, ha ritirato la propria firma dallo Statuto nel 2016. Ma lo scontro si è inasprito nel 2023 quando la CPI ha emesso un mandato d’arresto per il presidente Vladimir Putin, accusato di deportazioni illegali di bambini dall’Ucraina (un crimine di guerra).

La reazione russa è stata di dura intimidazione: il governo ha dichiarato di non riconoscere la giurisdizione della CPI e il Comitato Investigativo russo ha aperto un procedimento penale interno contro il procuratore della CPI Karim Khan e i giudici che hanno spiccato il mandato, accusandoli – secondo la legge russa – di aver incriminato ingiustamente un innocente e altri presunti “crimini.

L’ex presidente Dmitri Medvedev ha spinto la provocazione ancora oltre, arrivando a minacciare pubblicamente un attacco missilistico contro la sede della Corte all’Aia: “Si può ben immaginare un missile ipersonico sparato da una nave russa contro il tribunale,” ha dichiarato Medvedev, avvertendo cinicamente i giudici di “guardare il cielo”.

Queste dichiarazioni senza precedenti – evocanti addirittura violenza fisica contro un organo giudiziario internazionale – rappresentano un tentativo estremo di delegittimazione e intimidazione, volto a proteggere il leader russo dalle conseguenze legali delle sue azioni. Di fatto, siamo di fronte a una sfida frontale all’idea stessa di giustizia internazionale: le autorità russe cercano di far passare l’operato indipendente dei giudici della CPI come un abuso, invertendo i ruoli di accusato e accusatore.

Implicazioni per la protezione globale dei diritti umani

Credit: web

Le azioni di governi e leader politici volte a indebolire o sabotare le istituzioni di giustizia internazionale hanno serie implicazioni per la tutela dei diritti umani nel mondo.

Minare la credibilità della CPI

Innanzitutto, minando la credibilità e l’operatività della Corte Penale Internazionale (e di meccanismi affini), si rischia di creare zone di impunità: se i perpetratori di genocidi, torture o crimini di guerra percepiscono che la comunità internazionale è divisa e che i tribunali possono essere neutralizzati dalla pressione politica, potrebbero sentirsi esentati da conseguenze, incoraggiando di fatto ulteriori violazioni.

Ogni ostacolo alla CPI – sia esso il rifiuto di consegnare un imputato, il ritiro di uno Stato dallo Statuto, o addirittura la minaccia fisica ai giudici – invia un segnale devastante alle vittime di quei crimini, le quali vedono allontanarsi la prospettiva di ottenere giustizia e riconoscimento.

Delegittimare il Diritto Internazionale

In secondo luogo, la delegittimazione retorica di corti e norme internazionali mina l’ordine basato sulle regole e promuove una visione cinica in cui i diritti umani diventano opzionali. Se leader potenti dichiarano che sentenze o indagini internazionali non valgono nulla e possono essere ignorate impunemente, altri governi saranno tentati di seguire l’esempio, erodendo decenni di progressi nel creare standard universali di accountability.

Questo “effetto domino” potrebbe tradursi in un progressivo arretramento del diritto internazionale: trattati sul rispetto dei diritti fondamentali violati senza conseguenze, decisioni di corti internazionali lasciate lettera morta, e un ritorno alla legge del più forte nelle relazioni internazionali.

In ultima analisi, ciò mette in pericolo la protezione dei diritti umani su scala globale.

L’ultimo baluardo contro la deriva autoritaria dei nazionalismi

Le istituzioni come la CPI esistono per offrire un ultimo baluardo di giustizia quando la giustizia nazionale fallisce o è impossibile; indebolirle significa privare milioni di persone di quella tutela finale. Inoltre, i tentativi di intimidazione – come nel caso russo – creano un clima di paura che potrebbe dissuadere giudici, procuratori e testimoni dal perseguire la verità, con conseguenze deleterie per l’emersione dei fatti su crimini in corso (si pensi anche solo agli ostacoli nell’indagare crimini durante conflitti attuali, se non si garantisce la sicurezza e indipendenza degli attori giudiziari internazionali).

Se in Italia ci fosse un “Governo Ombra”, in occasione della Giornata Internazionale per il Diritto alla Verità sulle Gravi Violazioni dei Diritti Umani, farebbe uscire il seguente comunicato:

Credit: web

Il Governo italiano riafferma con convinzione il proprio sostegno alla Giornata internazionale per il diritto alla verità sulle gravi violazioni dei diritti umani e per la dignità delle vittime. L’Italia, storicamente impegnata nella difesa dei diritti fondamentali, riconosce la necessità imprescindibile di assicurare verità e giustizia alle vittime e ai loro familiari, in linea con gli obblighi derivanti dal diritto internazionale e dai principi democratici che ispirano la nostra Costituzione.

Consapevole dell’importanza della memoria storica e della necessità di contrastare ogni forma di impunità, il Governo italiano sostiene il ruolo centrale della Corte Penale Internazionale (CPI) e delle istituzioni internazionali preposte alla tutela dei diritti umani. L’Italia condanna fermamente ogni tentativo di delegittimazione delle istituzioni di giustizia internazionale e si oppone risolutamente agli atti intimidatori o alle pressioni politiche esercitate contro tali organismi.

Il nostro Paese si impegna inoltre a promuovere attivamente il diritto alla verità attraverso la cooperazione internazionale, l’assistenza tecnica, la condivisione di best practices e il sostegno politico e finanziario ai meccanismi di giustizia transizionale e alle commissioni per la verità e la riconciliazione.

In occasione di questa giornata, l’Italia ribadisce la propria determinazione a lavorare insieme alla comunità internazionale per rafforzare le istituzioni globali e regionali, garantendo che nessuna violazione dei diritti umani resti impunita e che ogni vittima possa vedere riconosciuta la propria dignità attraverso la conoscenza della verità.

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Studioso di comunicazione, semiotica e vessillologia. Esploratore, attivista culturale e saggista. Già consigliere comunale e militante radicale "contro la pena di morte". Laurea in relazioni pubbliche (Iulm, Milano), diplomi di alta formazione nel pensiero filosofico di Tommaso d’Aquino e Anselmo d’Aosta presso atenei pontifici; “Esperto in criminologia esoterica”, master in bioetica. Tra i suoi interessi di ricerca: diritti umani, peace studies, hate speech online, analfabetismo religioso. Da oltre dieci anni Ministro della Chiesa di Scientology e rappresentante italiano dello scrittore statunitense L. Ron Hubbard.

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