Milena Vukotic ha affascinato molti degli autori più importanti e innovativi della storia del cinema mondiale. Dalla danza alla recitazione, inseguendo e realizzando un sogno che l’ha consacrata come una Signora del cinema e del teatro in Italia e all’estero, la Vukotic porta con sé l’eleganza e quella grazia e poesia che Fellini disegnava nei suoi personaggi più intensi. La sua voce gentile, dalle vibrazioni profonde, ci accompagna in un viaggio di vita e d’arte incredibile come il paese delle meraviglie della sua amata Alice.
Milena Vukotic – Cineincanto
Lei ha avuto il privilegio di nascere in una famiglia di artisti ed ha avuto una formazione d’eccezione che è partita dalla danza, in un contesto di alto spessore professionale per poi approdare nel mondo del cinema e del teatro come attrice. Ci racconta quegli anni speciali e come ha vissuto questo passaggio?
Nella mia vita è stato un percorso naturale. Mia madre era una pianista e compositrice e mio padre era uno scrittore che aveva avuto contatti con i primi movimenti futuristi e con Pirandello che gli aveva dato il consenso di tradurre la sua opera. Sono cresciuta con molta fortuna in un ambiente di persone che coltivavano l’arte e il massimo rispetto per essa. Ho intrapreso il percorso della danza incitata da mia sorella che sosteneva avessi questo talento e la giusta fisicità. Iniziai da piccola, a otto, nove anni e la mia formazione cominciò a Londra. Dopo questi inizi londinesi, i molteplici viaggi e lo studio parallelo del pianoforte, a un certo punto della vita, anche per via di vari cambiamenti
famigliari, sono approdata a Parigi dove ho frequentato il conservatorio e poi sono entrata all’Opera. Ho lavorato con una compagnia internazionale di danza molto famosa e attiva, girando il mondo, con un repertorio classico e moderno. Contemporaneamente ai miei studi di conservatorio, molto impegnativi, avevo il desiderio di seguire dei corsi di teatro, anche spinta dall’esperienza di mio padre con il teatro di Bragaglia e d’avanguardia. Poi, a in certo punto, vidi il film “La strada” di Fellini e successe qualcosa. Presi una decisione coraggiosa. Decisi di tentare e rischiare. Lasciai la compagnia e mi trasferii a Roma dove viveva mia madre, con il sogno di poter lavorare con Fellini al cinema. Piano piano iniziò la metamorfosi della mia vita.
Con Federico Fellini lei ha girato “Giulietta degli spiriti” e “Tre passi nel delirio”. Il suo sogno si era realizzato. Cos’altro le ha dato, umanamente e artisticamente, l’incontro con Fellini?
Mi si è dischiusa una parte dentro di me che forse aveva bisogno di essere scoperta. É stato un incanto continuo. Una scoperta continua di quel mondo che è solo di Fellini. Lui è riuscito a portarmi oltre. Prima ancora di “Giulietta degli spiriti” avevo fatto il piccolo ruolo di una suora nell’episodio “Le tentazioni del Dottor Antonio” nel film “Boccaccio ’70”. Quando sono arrivata a Roma avevo avuto una lettera di presentazione per poter arrivare a lui. Così, con tutta l’emozione, l’ho incontrato ed è stato tutto molto fluido. Lo chiamavano “er faro”, una persona con cui si entrava subito in un certo tipo di rapporto e di comunicazione. Lui ha rappresentato la base del mio desiderio e della mia fede in quello che avevo deciso di intraprendere: lasciare la professione già avviata della danza per la recitazione, in quella avventura a Roma in cui l’unica certezza era la mia mamma. Per il resto era tutto un’incognita, perfino la lingua. Sono nata a Roma, ma fino a quel momento avevo sempre vissuto all’estero.

Luis Buñuel è stato un altro dei grandi autori con cui ha lavorato. In particolare ha partecipato nei suoi ultimi tre film: “Il fascino discreto della borghesia”, “Il fantasma della libertà” e “Quell’oscuro oggetto del desiderio”. Tra Fellini e Buñuel c’era una stima reciproca. Cosa ha rappresentato per lei essere diretta dal regista spagnolo?
É stata una grande fortuna. Ho avuto modo di osservare che più si è grandi, più è grande l’animo. È vero, Fellini e Buñuel si stimavano a vicenda. Quando dissi a Federico che andavo a fare un film con Buñuel, lui mi disse che lo considerava l’unico capace di trasformare la realtà in sogno. Un aneddoto: prima di partire per il film, Fellini mi chiese quanti anni avesse Buñuel. Lo stesso mi domandò Buñuel quando gli portai i saluti di Fellini. Entrambi mi fecero la stessa domanda. Una curiosa e, forse, misteriosa coincidenza.
Lei ha partecipato a pellicole di due autori che, se pur con provenienze diverse, raccontavano la realtà, la morte, l’animo umano con un approccio surrealista. Ha potuto vivere questa peculiare impronta narrativa durante la sua collaborazione con i due registi?
Io non riesco a tradurre un tema così universale e filosofico, posso solo testimoniare e sentire poeticamente ciò che loro mi hanno trasmesso. A me è arrivato questo e, per questa ragione, ho deciso di cambiare la mia vita più o meno consciamente. Evidentemente mi hanno trasmesso qualcosa che va oltre la mia capacità di spiegarlo ora. Erano in grado di guardare e interpretare il mondo da una prospettiva privilegiata che faceva anche leva sull’ umorismo.
Domanda ricorrente in questa rubrica: rispetto alla sua esperienza a teatro e al cinema, due linguaggi apparentemente imparentati, c’è in Lei una gerarchia di gusto personale tra i due codici?
In teatro, forse, dal punto di vista attorale ho fatto cose più interessanti, più ruoli importanti. In cinema ho lavorato di più, giostrandomi tra il cinema commerciale e quello autoriale. Gli attori seri risponderebbero che il teatro ha senz’altro maggiore forza per la presenza del pubblico e della situazione “viva” che si sperimenta. Io, invece, forse con molto azzardo, nonostante questa non sia una vera e propria certezza dentro di me, ho per il cinema una maggiore attrazione, sia come spettatrice che come interprete. Ma sento e vivo questa distinzione con molta leggerezza.

Qual è il personaggio che più ha rappresentato la sua anima?
Non saprei. Ho fatto tanti personaggi e ogni volta c’è un forte desiderio di immedesimazione per trovare i possibili colori utili a tirare fuori un personaggio. C’è, però, forse, un personaggio che ho amato tanto, ma non si tratta né di teatro, né di cinema ed è quello di Alice nel paese delle meraviglie. L’ho fatto a trentasette anni per la televisione. Era un po’ un ibrido tra personaggi interpretati da attori e cartoni animati. Era destinato a un pubblico vasto, sia per gli adulti che per i più piccoli. L’aver studiato e l’aver potuto approfondire il personaggio di Lewis Carroll è stato un grande arricchimento per me. Alice ha rappresentato e rappresenta un mondo di possibilità e di sogni in cui si ritrova tutto. É stata per me un’opportunità di capire il senso profondo di quel personaggio e di quell’opera.
Ascoltando le sue parole, mi viene da pensare che Alice sia quasi come il paradigma dell’attore: un viaggio fantastico nella totale libertà creativa, scoprendo nuovi “luoghi” dell’animo umano. Ora una piccola concessione al nazional popolare: a mio parere, attraverso la sua interpretazione, il personaggio di Pina Fantozzi ha assunto dei tratti poetici e autonomi che hanno contribuito al successo della serie di film di Paolo Villaggio e all’amore del pubblico. Qual è il suo punto di vista a riguardo?
Io credo che Paolo Villaggio abbia disegnato questi personaggi molto chiaramente. Appena ci incontrammo mi disse che era necessario rendersi conto che eravamo dei cartoni animati, dei personaggi non realistici, certamente grotteschi. Io sono andata avanti cercando di essere vera e sincera, rispettando quella caratterizzazione che mi era stata indicata. Partendo da lì bisognava portare avanti uno studio sul personaggio che ci veniva indicato. Nella deformazione e nel grottesco erano pur sempre personaggi umani e, forse, la mia interpretazione di Pina Fantozzi è andata avanti in modo naturale in quella direzione.

Immaginando che presto le venga proposto, qual è il suo personaggio ideale?
Premetto che mi innamoro subito dei personaggi che mi vengono proposti. Credo che sia una cosa che avvenga in modo istintivo. Idealmente mi piacerebbe interpretare un personaggio shakespeariano che non ho mai interpretato. Magari faccio Goldoni e mi sembra la cosa più alta che si possa fare. Per esempio, ora ho appena finito la tournée di “A spasso con Daisy” e anch’esso è un genere molto diverso. Tutti i personaggi hanno qualcosa di importante da rivelare. Ogni personaggio, come ognuno di noi, ha la sua parte segreta e, a differenza della vita reale, l’atto di interpretare permette che sia più facile arrivarci. Questa è la fase più intrigante e profonda perché consente, se si è capaci, di tirar fuori un qualcosa di sconosciuto. Lì, forse, risiede il personaggio ideale.

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